In margine agli scontri fra Al Fatah e Hamas
Fallito negli anni ’60 e ’70 il tentativo di portare avanti in qualche modo il problema di una “sistemazione nazionale territoriale” (così come era fallito per tutte le borghesie arabe negli anni ’50 e ’60 quello di un’“unità nazionale dei territori di lingua araba”), la borghesia palestinese ha svolto nei confronti dei proletari palestinesi lo stesso ruolo repressivo che altre borghesie arabe avevano assunto nei confronti dei proletari arabi, palestinesi inclusi. Oggi, la borghesia palestinese, in Cisgiordania e a Gaza, per proprio conto e come espressione degli interessi delle altre borghesie arabe e internazionali, tiene sotto controllo il proletariato palestinese servendosi degli stracci di territorio a lei assegnati dal gioco dell’imperialismo mondiale. Sempre più divisa tra gli interessi delle borghesie arabe e internazionali, essa si è ridotta a organizzare e fomentare la divisione e il massacro del proletariato palestinese in nome delle proprie fazioni e a consegnarlo ancora più debole e inerme alla repressione armata della borghesia israeliana.
Questa situazione, ormai consolidata e irreversibile, rende sempre più urgente la necessità per il proletariato palestinese di spezzare ogni “intruppamento” e ogni appoggio e sostegno sia alle correnti borghesi di Al Fatah, legate ad alcune borghesie arabe, a quella israeliana e occidentale, sia alle correnti borghesi di Hamas, legate maggiormente alle borghesie arabe che agitano la bandiera del fondamentalismo islamico, ma solo come copertura alle proprie ambizioni imperialiste regionali e alla propria funzione repressiva antiproletaria apertamente manifestata.
Il problema nazionale palestinese non può essere affrontato e risolto dalla borghesia palestinese come non può più essere affrontato e risolto il più generale problema nazionale arabo da qualunque borghesia araba. La recente divisione e gli scontri armati tra le due fazioni politiche borghesi dei territori di Gaza e della Cisgiordania dimostrano, se ce n’era ancora bisogno, che l’obiettivo di un territorio nazionale “più accettabile”, per ampiezza e confini, non rientra più nei suoi principali interessi. Organicamente inserita da alcuni decenni nelle correnti affaristiche della regione, influenzata dalle più potenti e ambiziose borghesie arabe, realisticamente la borghesia araba non si pone più ambizioni territoriali, ma usa i territori esistenti per spremere, controllare e reprimere militarmente il proletariato palestinese. Quest’ultimo non ha che da prendere atto di tale situazione. Il fatto che l’obiettivo di un territorio nazionale “accettabile” sia miseramente fallito e non trovi più alcuna soluzione da parte della borghesia palestinese non significa che il proletariato debba “forzare” questa soluzione, incalzarla o sottomettersi ancor più a essa per raggiungere quell’obiettivo. Per qualunque proletariato,l’obiettivo di un territorio nazionale con “giusti confini”, ben delimitati e sicuri, e dunque di un appoggio alla propria borghesia per realizzarlo, non è un principio cui esso debba “obbedire” e al quale debba subordinare la propria lotta contro la borghesia stessa. Un appoggio alla propria borghesia (appoggio in ogni caso pratico e militare, non certo teorico-politico od organizzativo) poteva trovare utilità e giustificazione solo in situazioni storiche in cui questa svolgeva iniziativa e funzione rivoluzionaria contro vecchi sistemi di produzione e vecchie classi sociali. Nelle situazioni in cui questa borghesia si sia invece dimostrata incapace e impotente a svolgere tale funzione, come nel caso della borghesia araba e di quella palestinese in particolare – situazioni nelle quali i vecchi modi di produzione sono stati certo superati, ma attraverso mediazioni e compromessi con le vecchie classi e con il grande affarismo imperialista – , i problemi nazionali, delle sistemazioni territoriali, non trovano quasi mai alcuna soluzione e vengono più o meno disattesi, come nella regione medio-orientale, creando situazioni incancrenite di tragico stallo. In tali situazioni, pensare e credere che per lottare contro la propria borghesia occorra avere risolto “prima” il problema nazionale, “sistemare” il territorio, dotarlo di confini “giusti e sicuri”, significa avere una visione nazionalistica della lotta di classe. Inoltre, pensare di “spingere” la borghesia, fare causa comune con essa, ritenendo così di dare un colpo all’imperialismo israeliano od occidentale è una pura illusione. Il proletariato non fa del problema nazionale (o della lotta contro uno dei campi imperialisti) un obiettivo parziale o una “tappa”cui subordinare la propria lotta, che va condotta anzitutto contro la propria borghesia. Anche quando si fosse trovato dinanzi a una borghesia realmente rivoluzionaria, “meritevole” di un appoggio militare (situazioni storiche, queste, oggi non più esistenti e praticabili), il proletariato palestinese non avrebbe certo dovuto aspettare, per combatterla, che si compisse “prima” una “vera” o “giusta” sistemazione nazionale, dei confini, ecc.
Comunque si risolva o non si risolva il problema nazionale, qualunque sia il tipo di problema nazionale chiuso entro un quadro borghese, il proletariato rimane sempre schiacciato e oppresso, economicamente e militarmente. Esso deve invece restare indifferente rispetto al modo in cui la borghesia o il gioco imperialista mondiale portano avanti e “risolvono” (a modo loro!) il problema nazionale, mettendo invece al primo posto la lotta di resistenza contro l’oppressione esercitata dalla propria borghesia, qualunque sia la situazione nazionale prodottasi e cercando alleati solo negli altri proletari. Nel Medio Oriente, il proletariato deve sviluppare e organizzare la propria unità di classe, partendo dalle situazioni “nazionali” e statali esistenti, battendosi contro borghesie e stati locali avidi e rapaci. Solo dopo l’abbattimento di questi stati e con l’instaurazione di una dittatura proletaria nella regione (prospettiva impensabile senza una vittoria del proletariato anche nei grandi centri del capitale) il problema nazionale potrà essere affrontato e riesaminato, con modi, forme e prospettive del tutto diverse. Per il proletariato palestinese, dunque, non si pone più oggi alcun “problema nazionale”, di sistemazione nazionale o di autodeterminazione nazionale; ovvero, se ancora si pone, non lo riguarda e non è risolvibile dal solo proletariato palestinese, ma è un problema di tutto il proletariato arabo e mondiale. Come tale, esso va affrontato e risolto nella prospettiva della lotta e della dittatura del proletariato mondiale contro tutte le borghesie e i loro apparati statali. La rivendicazione dell’“autodeterminazione palestinese” si può porre ancora utilmente (cioè dal punto di vista dello sviluppo della lotta di classe nell’area) solo ed esclusivamente per ciò che riguarda il proletariato israeliano (che deve così dimostrare, nei fatti, ai proletari palestinesi, di voler lottare contro la propria borghesia anche su questo terreno): non certo per dare così “nuovo slancio” e “vigore” al movimento nazionale del proletariato palestinese, ma solo come atteggiamento tattico disfattista contro la propria borghesia, per accrescere la fiducia del proletariato palestinese nei confronti di quello israeliano, considerato altrimenti complice dei misfatti della propria borghesia.
Solo così si potrà cominciare a uscire dal drammatico vicolo cieco dei massacri anti-proletari, di marca israeliana o arabo-palestinese.
Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°04 - 2007)