Ancora una volta, in Medioriente, si va preparando un enorme bagno di sangue proletario: quello che abbiamo visto a metà novembre 2012 è solo un anticipo. Dopo una settimana di bombardamenti aerei e navali israeliani sulla striscia di Gaza, 150 sono i morti, tra cui donne e bambini, nelle distruzioni di case e quartieri. Ci si accorda per una tregua: forse reggerà, forse no. Dicono che siano in preparazione un intervento in Iran e un atto di forza in Siria. Sia quel che sia, è certo che nuovo sangue sarà versato, affinché appaia al mondo intero, percorso da agitazioni e lotte proletarie, l’Ordine Borghese.
Dinanzi alla crisi di sovrapproduzione che divampa ormai da cinque anni suscitando ancor deboli risposte proletarie, gli Stati imperialisti, terrorizzati solo dalla possibilità anche remota che la lotta di classe esploda e dilaghi, preparano il terreno dello scontro, elaborano le strategie, misurano lo stato della propria forza e di quelle in gioco. Israele chiama “diritto di autodifesa” quello che è, in realtà, un’azione di rappresaglia e decimazione della popolazione civile. Non si tratta di palestinesi e israeliani, di ebrei e mussulmani, ma di proletari, usati come scudo a difesa di una Dittatura Borghese che andrà distrutta. Smantellare la Libia è stato un gioco da ragazzi, anche per evitare che si potesse creare una continuità tra il proletariato tunisino e quello egiziano. Massacrare la popolazione irakena dopo aver spinto alla guerra gli uni contro gli altri iraniani e irakeni, per otto anni e con un milione di morti, è stato un percorso micidiale di conflitto in due tempi. Attaccare l’Afghanistan è stato e continua a essere un altro “colpo da maestri”, con relativa invenzione di “guerre umanitarie”, “esportazioni di democrazia”, caccia al “cattivo di turno”. Poi, è giunta l’ora della Siria. Il Medioriente, in cui si è voluto sistemare violentemente lo Stato israeliano (una micidiale, modernissima macchina da guerra), è una faglia fragile, una delle più pericolose del pianeta, alimentata e foraggiata da armi sempre più micidiali. E’ un habitat sperimentale, un campo di guerra: non solo della guerra in quanto tale, ma soprattutto della guerra civile e della guerra antiproletaria. Qui, i cavalieri dell’Apocalisse guidati dagli Usa montano e smontano nazioni fittizie nate dalle spartizioni coloniali degli imperialismi europei. I missili-giocattolo della borghesia palestinese (piccola in confronto al bestione borghese d’Israele) non fanno né caldo né freddo a quest’ultimo: sono un’opportunità, non un problema, per scatenare l’inferno – l’ultimo, quattro anni fa, chiamato “Piombo fuso”, provocò la morte di 1400 proletari e il ferimento di migliaia.
Qui, ai confini e nell’entroterra, si stendono chilometri e chilometri di muri: il che non ha mai scandalizzato nessuno. La pace dei cimiteri è un articolo di commercio a buon mercato (la Road Map fu l’ultima versione), e qui raggiunge le più alte vette dello spirito pacifista e patriottico. Non passa un anno senza che l’articolo “pace” perda di valore, e i massacri sono una risorsa per rialzarne il prezzo.
Tutto questo non ha nulla a che vedere con la cosiddetta “questione nazionale palestinese”, e tuttavia non si fa che parlarne fino alla nausea. Il nemico dei proletari palestinesi è a Gaza come a Tel Aviv, ad Amman come a Damasco, a Beirut come al Cairo e a Tunisi. L’imperialismo e l’antimperialismo usano i proletari come cavie da sacrificare nell’orrenda guerra che si apprestano a giocare “alla grande”, ripresentando una “questione nazionale” priva di senso. Da tre decenni almeno, e nonostante tutto, i proletari palestinesi hanno agito e agiscono non più a titolo nazionale, ma a titolo di classe, contro i banditi delle Metropoli e della piccola borghesia: tuttavia, batterie d’insorti, di mercenari, di partigiani di tutte le risme, dell’una e dell’altra sponda, continuano ad aggirarsi per le strade mediorientali con il compito di rialzare il mercato dell’ideologia nazionale. Le nuove autorità egiziane e tunisine e quelle turche non vengono per portare sostegno ai proletari, ma alla piccola e media borghesia palestinese. Non solo: non costituiscono un deterrente contro i droni e i micidiali missili israeliani, ma fungono da attenti osservatori e controllori di una realtà che spaventa – la crescita di un proletariato che può sfuggire a ogni controllo contabile e sociale. Troppi sono i senza riserve e i senza patria: un pericolo mortale!
Solo gli idioti pensano che la borghesia israeliana voglia imporre la “propria” strategia di morte al mondo. E’ falso! Essa è perfettamente integrata alla borghesia delle grandi potenze, conosce i tempi con cui può fare i propri giochi di guerra e vi si attiene. Solo gli imbecilli pensano che la cosiddetta “primavera araba” abbia cambiato qualcosa nella tattica e nella strategia della borghesia mediorientale. Dopo aver attaccato il proletariato egiziano, la democrazia tanto amata, ritrovata nel nome della Fratellanza mussulmana, è già pronta per riprendere sotto il proprio controllo la striscia di Gaza e partecipare al grande banchetto di domani.
Intanto, i nazionalcomunisti, diffusi in tutto il mondo, governativi e non, tenendo sotto controllo le lotte proletarie, continuano a girare il minestrone nazionalista spingendo il proletariato palestinese a lottare per una causa per cui ha pagato e sta pagando ancora un prezzo enorme, una mattanza per opera di entrambe le borghesie, israeliana e araba: “versagliesi e prussiani”, come nella Comune di Parigi. Da qualunque parte ci si volga, c’è una borghesia, araba e non, ci sono rincalzi patriottici e mercenari che ti sparano alle spalle. Dal “Settembre nero” di Amman, a Tel-al Zaatar, a Sabra e Chatila, i macellai delle due parti hanno seminato solo morte e distruzione nei campi profughi e nelle periferie di Beirut. I fattori, antimperialista e antisionista, con cui va in battaglia il nazionalismo palestinese (seguito in ciò dalla piccola borghesia vecchia e nuova dei paesi sviluppati, intruppata dai mezzi democratici di diffusione di massa), non sono armi della battaglia di classe: sono i paraventi di una borghesia corrotta quanto quella israeliana, che servono per costringere il proletariato palestinese ad arruolarsi nelle file nazionaliste di Hamas e di Abu Mazen e quello arabo-israeliano nelle file dello Stato di Israele. La “questione nazionale palestinese” è solo un contenitore politico-ideologico che le borghesie, arabe e non, risvegliano periodicamente per terrorizzare il proletariato mediorientale. La strategia proletaria non contempla più da moltissimo tempo, nel suo obiettivo storico della dittatura proletaria, la lotta armata per un Bantustan palestinese, ma l’abbattimento di tutti gli Stati dell’area, arabi e non arabi. I “diritti del popolo palestinese”, ovvero della borghesia palestinese, non hanno nulla a che spartire con gli interessi immediati e storici del “proletariato palestinese”.
Se vero che lo Stato d’Israele è uno Stato che riassume in sé imperialismo, colonialismo e fascismo, e quindi si caratterizza come un vero Stato democratico all’ennesima potenza, è altrettanto vero che in tutte le regioni mediorientali, in tutti gli stati, monarchie e repubbliche, poco o molto democratiche, lo sfruttamento della “classe operaia internazionalizzata” ha raggiunto un livello intollerabile. Se l’ideologia religiosa e nazionalista viene promossa da entrambe le borghesie è proprio per esaltare la dinamica reazionaria delle classi medie, della piccola borghesia, dell’aristocrazia operaia israeliana e del sottoproletariato di entrambi i paesi, in un territorio ormai unificato dal Capitale: nell’islamismo e nel sionismo, non c’è altro che il cuore reazionario del Medioriente, integrati entrambi dal nazionalismo e dall’imperialismo borghesi.
Purtroppo, la vecchia e combattiva classe operaia delle metropoli ha dimenticato di possedere un’enorme forza rivoluzionaria potenziale: non ha ancora riconquistato la consapevolezza né della prigione sociale in cui è rinchiusa né della fratellanza di classe che l’accomuna a quella mediorientale. Perché ciò accada, occorre che una lotta dura e inevitabile sorprenda e travolga radicalmente tutte le illusioni riformistiche: solamente da quel momento, si riconosceranno nel bisogno dell’organizzazione le prime scintille di coscienza di classe. E, in quell’obbligatoria transizione, la classe operaia ritroverà, nelle metropoli e nelle periferie, nel sud e nel nord del mondo, nei vecchi e nei giovani stati imperialisti, il partito rivoluzionario, che l’accompagnerà e ne sarà la sola e unica guida: per la conquista del potere!
Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2013)