Erano passati solo quattro anni dalla fine dell’ultimo macello mondiale, e di nuovo soffiavano impetuosi venti di guerra in Europa. I famosi muri non erano ancora stati costruiti, ma già si discuteva se l’incolumità di New York e di S. Francisco andasse difesa, sulla pelle del proletariato tedesco, sulle rive del Reno o quelle dell’Elba. Dopo quasi 80 anni, l’ubicazione è cambiata – si difenderanno la democrazia, la pace, la libertà a stelle e strisce sulle sponde del Dnepr o, più modestamente, sull’ asse euro-atlantico Danzica-Costanza? Il mondo attende trepidante l’esito della guerra scatenata in Ucraina: si fermeranno le interminabili colonne blindate russe nel Donez o avanzeranno fino a Odessa o alla Transnistria? Verranno aggrediti i paesi baltici, quelli scandinavi?
Molto vien detto, negli scatenati dibattiti televisivi, sulle sofferenze della popolazione ucraina, poco sulle cause reali della guerra, proclamata nel “cuore dell’Europa”: una guerra che, per crimini contro la popolazione, non ha nulla da invidiare rispetto a quelle in cui il Capitale – occidentale od orientale poco cambia – ha riempito di cadaveri tutti gli angoli del pianeta solo negli ultimi vent’anni.
La geografia
Vediamo un po’ più da vicino la questione, di cui il nostro giornale si è occupato in anni recenti[1].
L’Ucraina ha una superficie leggermente superiore a quella della Francia; nel 2002 aveva quasi 50 milioni di abitanti, oggi scesi a 44. Il territorio è quasi completamente pianeggiante, compreso tra due modesti rilievi: a ovest, il ripiano Podolico costeggiato dal Dnepr; a est le alture del Donez. A nord, dominano foreste di pini e betulle; al centro, la steppa alberata; a sud, steppa su suoli neri fertilissimi, in cui le colture cerealicole costituiscono una delle risorse economiche del Paese.
L’80% della popolazione è ucraina, quasi il resto è russo, concentrato in Crimea e nelle città orientali. Negli ultimi 20 anni, la popolazione è diminuita di circa 6 milioni, soprattutto a causa delle migrazioni (prima clandestine, poi autorizzate) verso il centro Europa e del ritorno dei russi in Russia, dopo l’indipendenza dell’Ucraina (1991).
La popolazione urbana costituisce circa il 70% del totale. L’agricoltura forma una voce molto importante dell’economia: ancora il 16% della forza-lavoro complessiva è impegnata nell’agricoltura (in particolare, come s’è detto, cerealicoltura). L’industria mineraria è molto importante: nel bacino del Donez, sono importanti i giacimenti di carbone e ferro; a Ovest, nella regione di Lviv, petrolio e gas naturale.
L’Ucraina è il sesto paese produttore di ferro al mondo. Il carbone sarebbe importante, ma i costi di estrazione sono molto elevati, gli impianti obsoleti. Dal carbone dipenderebbe la fornitura di energia per le attività industriali: ma, essendo il settore in forte crisi, sono vitali gli approvvigionamenti del gas e del petrolio russi.
L’industria occupa un 19% della forza-lavoro: siderurgia in primis, industria automobilistica, trattori, macchinari agricoli in genere. Il terziario occupa circa 65% della forza-lavoro: il turismo ha una parte non trascurabile sulle coste del Mar Nero, e in particolare in Crimea.
Dal 1600 alla guerra di Crimea
Per la sua morfologia “aperta”, per la sua posizione geografica (continentale a nord, marittima a sud), per la fertilità del suolo e la ricchezza del sottosuolo, l’Ucraina ha da sempre attratto l’interesse di rapina da parte dei vicini: in primo luogo, la Polonia (le lotte tra Polonia e i Cosacchi si protrassero tra XVII e XVIII secolo, con alterne vicende) e la Russia zarista. Un accordo tra i due stati nel 1667 portò alla divisione del Paese in due porzioni: i territori a destra del Dnepr passarono alla Polonia, quelli alla sinistra alla Russia. Negli ultimi secoli, questo fu il leit-motiv di tutta la storia dell’Ucraina per crearsi come Stato indipendente: gli sforzi per liberarsi degli uni e degli altri, magari facendo ricorso all’appoggio della Turchia ottomana. Solo con la seconda spartizione della Polonia (1793), tutta l’Ucraina passò sotto il controllo dello zar.
Da allora, iniziò, molto lentamente, una forma di nazionalismo indipendentista ucraino antirusso, che crebbe soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento, a causa delle restrizioni imposte dallo zar all’uso della lingua ucraina (peraltro parlata quasi esclusivamente nelle regioni occidentali, ai confini con Polonia, Moldavia e Romania).
Secondo Marx ed Engels, nelle loro lettere a corrispondenti russi, il processo di industrializzazione russo (e in parte ucraino) fu una conseguenza della sconfitta zarista nella guerra di Crimea (1853-56). Questo fatto bellico costrinse l’impero, troppo arretrato economicamente per potere far fronte all’urto delle potenze occidentali, a sostenere centralmente lo sviluppo industriale da un lato, a eliminare la servitù (1861) dall’altro, e così avviare un processo di modernizzazione a cui farà seguito la liberazione di mano d’opera salariale da impiegare nelle prime grandi fabbriche.
La nascita della questione nazionale
Dopo la rivoluzione russa del febbraio 1917, l’Ucraina ottenne l’indipendenza nel mese di marzo; ma, col trattato di Brest-Litowsk (marzo ’18) che sanciva la fine della guerra tra la Russia rivoluzionaria e la Germania, gli Imperi centrali pretesero e ottennero il controllo dell’intera regione. Il governo nazionale appena formato fu rovesciato da un colpo di stato sostenuto da Berlino: ma il nuovo governo rimase in piedi solo per alcuni mesi, fino al novembre dello stesso anno.
In alcuni scritti di Lenin, tra il febbraio e l’ottobre del ’17, si chiede sempre con forza che il Governo provvisorio russo di Kerenski si decida a riconoscere “il suo elementare dovere democratico” (si noti, di passaggio, la precisione del termine: il contenuto della rivoluzione borghese in Russia era democratico, non comunista) di dare l’autonomia e la completa libertà di secessione all’Ucraina. È chiaro che i movimenti nazionalisti e quelli comunisti si intersecavano: ma i primi erano per una rivoluzione borghese, i secondi per una rivoluzione anti-borghese; entrambi potevano allearsi momentaneamente contro ciò che rimaneva di economia e società pre-capitalistica, con la necessaria e sempre ben ribadita e ben nota posizione in base alla quale il movimento comunista doveva mantenersi completamente indipendente dall’altro quanto a programmi, finalità, organizzazione e azione.
Va detto che il movimento nazionale ucraino non riscuoteva molto successo nella stragrande maggioranza della popolazione: né tra i contadini per lo più analfabeti, su cui poca presa faceva la bandiera linguistica sventolata dai nazionalisti, né tra gli operai industriali, perlopiù di origine russa. Tutti si sentivano, bene o male, “filorussi”. Il movimento nazionale ucraino si sviluppò soprattutto nelle file di una parte della borghesia e della piccola borghesia (preti, insegnanti, maestri, letterati), e in particolare all’estero, in Austria. Per queste sue caratteristiche, il movimento nazionale era più vicino al populismo e all’anarchismo che al marxismo: è in fondo anche per queste sue caratteristiche di arretratezza sociale ed economica che, per un paio d’anni, si svilupperà in Ucraina una lotta antibolscevica da parte anarchica.
Il movimento nazionale ucraino era certamente alimentato da tutta una serie di leggi zariste ch eavevano imposto, ancora nel 1870, forti restrizioni alla diffusione di giornali e letteratura ucraina, poi attenuate con la rivoluzione del 1905 e rimesse in pieno vigore nel 1914. Ma tali restrizioni non avevano nessuna presa sul contadiname, analfabeta, e neppure sugli operai di origine grande-russa. Per cui, ben presto, il movimento nazionale autonomista borghese dovette cercare appoggio presso potenze straniere (prima l’Austria, poi la Germania e infine la Polonia), finendo così con lo screditarsi completamente agli occhi delle masse popolari. D’altra parte, le leggi del mercato imponevano legami molto stretti fra Ucraina e Russia.
Dalla storia rivoluzionaria allo stalinismo
Con la rivoluzione di febbraio 1917, si costituì la “Rada”, una sorta di parlamento, che raggruppava nazionalisti, socialdemocratici, socialisti rivoluzionari. Pur avendo poco peso politico, essa cercò di entrare in trattative con il Governo provvisorio di Pietrogrado, avanzando la richiesta di ottenere l’autonomia, ma senza separazione dalla Russia. Dopo la Rivoluzione d’Ottobre, la Rada proclamò senz’altro la Repubblica popolare d’Ucraina – pur all’interno della Federazione.
La Rada era espressione del movimento borghese nazionale. Nell’estate 1917, un po’ in tutto il paese si formarono forti Soviet – e, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, il Soviet degli Operai e quello dei Soldati si fusero, creando di fatto un centro politico opposto alla Rada. Questa favorì la riorganizzazione dell’esercito bianco sulle rive del Don, e diede il via libera a operazioni militari contro la Guardia Rossa.
Dopo Brest Litowsk, il Governo sovietico decise di riconoscere la Repubblica popolare d’Ucraina in base al principio sempre sostenuto dell’autodecisione: ma pose l’ultimatum che la Rada cessasse ogni ostilità; in caso contrario, essa sarebbe stata considerata in guerra. Il giorno dopo, la Rada chiedeva l’aiuto della Francia, e poi dell’Inghilterra. La Russia rispondeva assediando Kiev e cacciandone la Rada. Ciò provocava l’immediato intervento dell’esercito tedesco, che riconquistava Kiev: era instaurato un governo fantoccio tedesco, che si premurò di ammassare grano nei vuoti magazzini di Berlino.
Con la sconfitta tedesca nel 1918, la Germania dovette abbandonare ogni pretesa sull’Ucraina. I nazionalisti cercarono di riguadagnare voce, chiedendo l’appoggio della Francia, che tuttavia si limitò più a parole che a fatti. In questo vuoto di potere, i bolscevichi (Pjatakov) organizzarono nell’Est del paese un Governo provvisorio ucraino degli operai e dei contadini, e l’esercito bolscevico iniziò la marcia verso sud, con l’appoggio della popolazione. Anche Kiev fu presto riconquistata. È in questo contesto che, dal 1918 al 1921, si sviluppò l’azione militare di Machno, capo di un gruppo che si definiva di “anarchico-comunisti” e che combatté successivamente, e a volte contemporaneamente, contro la Rada, contro i generali bianchi (Denikin) e contro i bolscevichi.
Il nazionalismo ucraino giocò allora l’ultima carta, rivolgendosi alla Polonia per un sostegno militare contro il governo bolscevico. Da un lato, ciò costò una nuova invasione al Paese, che durò poco meno di due mesi, fino alla definitiva sconfitta polacca; dall’altro, segnò la fine del nazionalismo borghese e piccolo-borghese, totalmente screditato agli occhi delle masse contadine, da sempre ferocemente ostili nei confronti della Polonia, poiché di lì venivano i proprietari dei fondi su cui esse lavoravano in condizioni di assoluto sfruttamento. Da questo momento, fu il partito bolscevico a farsi garante del diritto all’autodecisione e dell’indipendenza ucraina.
Il governo bolscevico ucraino si trovò di fronte a una scelta difficile. O iniziare subito un processo di integrazione con la Russia; oppure – ed era quanto sostenuto da Lenin – dar corso a un processo di autonomia nazionale in nome dell’autodecisione. Nel dicembre 1918, fu indetta una conferenza del partito a Mosca, allo scopo di discutere una mozione preparata da Lenin sul problema economico, sociale, amministrativo ucraino: gli impiegati e funzionari dovevano conoscere l’ucraino; le grandi proprietà dovevano venire ripartite tra i contadini e le requisizioni di grano fatte solo eccezionalmente; i sovchoz creati solo in minima misura. L’aspetto paradossale della questione ucraina sta anche nel fatto che questa mozione fu approvata a maggioranza dai russi, ma sollevò molte opposizioni proprio da parte dei bolscevichi ucraini, favorevoli a una sorta di totale “russificazione” del Paese: essi consideravano la politica verso i contadini come una concessione troppo grande verso i social-rivoluzionari locali.
E più tardi, con la morte di Lenin, i contrasti tra le masse contadine e il proletariato urbano cominciarono a farsi più acuti, portando per lunghi anni, sotto lo stalinismo, alla catastrofe dell’economia. Infatti, con la “collettivizzazione” delle campagne (che tale non fu, dal momento che rimase la proprietà privata di parte almeno dei mezzi di produzione e del prodotto per le singole famiglie), ci fu una paurosa caduta della produzione cerealicola e lo sterminio del patrimonio zootecnico (la “fame di Stalin” degli anni 1932-33). I contadini, minacciati dalle voci della confisca del bestiame da parte dello Stato, preferirono macellarlo. I morti per la carestia si calcolano in decine di milioni, la maggior parte dei quali erano ucraini.
L’Ucraina oggi
Per la sua collocazione geografica e la sua storia, l’Ucraina non è mai riuscita ad essere una nazione completamente autonoma, anche dopo il crollo dell’URSS nel 1991. È facile preda di ogni tipo di imperialismo, del capitale finanziario legato alle materie prime e soprattutto all’armamento: l’area baltica, quella del Mar Nero e quella caucasica sono aree politico-strategiche di altissimo interesse. È un territorio che, di fatto e nell’ottica dei governi, deve solo fungere da tramite per le forniture del gas russo all’Europa, attraverso una molteplicità di gasdotti: da essi dipende la sua importanza strategica attuale.
La privatizzazione dell’economia ha favorito il sorgere di “oligarchie” sufficientemente potenti da poter controllare i gangli dei mercati. Da un lato, l’Ucraina è dipendente dall’energia che arriva dalla Russia; dall’altro, è attratta militarmente dagli USA, economicamente dall’Europa. Vi sono dunque tre principali tendenze nella borghesia ucraina: quella filorussa, quella filooccidentale e quella nazionalista – le due ultime in qualche modo confuse nella cosiddetta “rivoluzione arancione”, nata più o meno ad arte per rinegoziare con la Russia i costi delle materie prime e sviluppatasi poi per offrirsi (sull’esempio delle nazioni baltiche sostenute dagli USA) alla sponda europea, e tedesca in particolare.
L’accelerazione delle tensioni interne tra gruppi borghesi di potere non fece altro che riportare alla luce l’importanza vitale che la costa meridionale del Paese riveste per la Russia. Come già durante le due guerre mondiali, la Crimea riveste un ruolo primario per il controllo, a est, dell’area caucasica e, a sud, del Mar Nero e del Mediterraneo – ciò che, dal 2014, è diventato uno dei centri dello scontro imperialistico. Ora che questa realtà si palesa drammaticamente nell’attuale conflitto, non c’è dubbio che il processo di balcanizzazione dell’Ucraina – la sua divisione e il suo smembramento in almeno due o tre diverse aree di influenza – diventerà di attualità.
L’economia ucraina, già fragile prima del crollo della Russia, entra in una crisi molto profonda nei due decenni successivi, con una piccola ripresa (due anni), solo tra il 2004 e il 2006: ciò che, come finanziamento, arriva dal FMI viene utilizzato a coprire le spese militari. Secondo stime governative (2014), la produzione di carbone diminuì del 50% e 64 miniere su 104 dovettero chiudere, licenziando 100mila lavoratori; la produzione petrolifera si ridusse del 15%; l’industria chimica perse il 25%; l’inflazione raggiunse il 20%. La guerra per la Crimea rese grandi servizi alle più forti famiglie di oligarchi locali, come il “re del cioccolato”, che approfittò della situazione per finanziare la formazione di battaglioni di volontari, attivi nell’est del Paese contro i separatisti filorussi, e al tempo stesso sospettati della distruzione di miniere e di officine del “re delle miniere e dell’acciaio”. È molto difficile seguire queste manovre dei gruppi di potere industriale-finanziario-politico del fronte interno, che d’altra parte ci interessano assai poco, se non per il fatto che, attraverso tali manovre, si intuisce lo zampino di qualche impero finanziario-politico-militare straniero.
La scarsità di risorse energetiche e di materie prime di cui soffre l’Europa doveva orientare naturalmente verso una sorta di collaborazione con la Russia. Ma questa è una cosa che non può piacere agli USA, che cercano di ostacolarla. Le sanzioni sostenute e applicate dagli USA nei confronti della Russia per il suo intervento in Crimea furono viste di cattivo occhio dall’Unione europea. Rappresentante di buoni commercianti, aperti a ogni collaborazione con le borghesia e coi capitali di ogni colore, il governo russo avanzò, ancor prima dell’annessione della Crimea, la proposta di trasformare la vigente unione doganale tra Russia e alcuni paesi dell’ex-URSS in una Unione Economica Eurasiatica, allo scopo di giungere a una zona di libero scambio dall’Atlantico al Pacifico, di cui l’Unione europea farebbe parte integrante.
In quel frangente, Romano Prodi (ma fu solo una voce tra le tante che si sollevarono allora dall’Europa contro gli USA) scriveva: “Senza entrare nel merito dell’utilità o della necessità delle sanzioni conviene tuttavia mettere in rilievo l’asimmetria delle loro conseguenze dato che, nonostante il 50% di svalutazione del rublo nei confronti del dollaro, le esportazioni americane in Russia stanno tuttora aumentando, del tutto in controtendenza rispetto a quelle europee” [2].
È in quel periodo che la Russia avviò trattative ufficiali e semiufficiali per convincere l’UE a rinunciare all’accordo di libero scambio con gli USA, per entrare nella costituenda Unione Economica Eurasiatica, entrata poi in vigore l’1 gennaio 2014 e comprendente Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Russia e Kirghizistan. Nonostante il fallimento della trattativa, la Germania, per bocca della cancelliera Merkel, in una intervista televisiva dell’agosto 2014, dichiarava che “si deve trovare una soluzione che non crei danni alla Russia… Se l’Ucraina rientrasse nell’Unione eurasiatica, l’Unione europea non ne farebbe un casus belli”. Si tenga conto del fatto che, meno di tre anni prima, era iniziata la costruzione del grande gasdotto Nord Stream 2 (NS2) che, appaiato al NS1, dovrebbe garantire all’Europa (in primis alla Germania) la maggior parte dell’energia necessaria per l’economia continentale. Le dichiarazioni della cancelliera avevano tutta l’aria di un baratto…
La guerra attuale
Se si tiene presente il quadro delle crescenti difficoltà economiche in cui si muove, non da oggi, tutta la sfera produttiva internazionale: le ricorrenti crisi commerciali, le crescenti difficoltà di investire nei capitali finanziari fittizi le masse di plusvalore estorto a livello planetario, le necessità di trovare settori produttivi che garantiscano ancora qualche buon margine di profitto (e dove, se non nell’industria militare?); allora non può sorprendere che le guerre si scatenino là dove la morsa della crisi si fa più acuta. Non da oggi, la Russia, col suo debole apparato produttivo, ha allungato i propri artigli sulla regione industrialmente più avanzata d’Ucraina (il Donbass), accampando ragioni “culturali” per la loro annessione (e quando mai la “cultura” non viene al servizio dei padroni?). Ma l’Ucraina, preferendo mettersi nelle mani di capitali occidentali, non sta meglio, con un’inflazione che è aumentata da 8,4% (aprile 2021) a 13,7% (marzo 2022), un tasso d’interesse che rimane al di sopra del 10%, e la paralisi e la prossima perdita di interi settori produttivi ed estrattivi, oltra a quella di ampie fette di territorio.
È chiaro come, a fronte di queste difficoltà dei due Stati, gli USA (e qualche loro più fedele alleato, UK in testa), si siano fatti ingolosire, intensificando i rapporti economici e finanziari con l’Ucraina, da una parte, e la pressione militare verso la Russia, dall’altra.
A partire dal 1990, vi è stato uno spostamento di oltre mille chilometri dei confini della NATO verso est, specie quando, dopo il 1997, una serie di Stati “sovrani” hanno accettato di mettere il proprio suolo al servizio di basi militari dell’Alleanza Atlantica. In particolare, per le mire russe, vedere tutta la costa occidentale del Mar Nero, il Bosforo e i Dardanelli costellati di istallazioni ostili dev’essere stato un rospo duro da digerire; così come il tentativo di penetrazione di merci, affaristi, soldi e “cultura” a stelle e strisce dall’altra parte del Mar Nero (Georgia).
Ai tentativi russi di creare un’unione eurasiatica, la Commissione Europea rispose concludendo nel 2014 un accordo con alcuni singoli Stati (l’Ucraina innanzi tutto, ma anche Moldova e Georgia), che prevedeva la loro progressiva integrazione economica nel mercato interno dell’Unione europea. Per la Russia, tutto ciò significava: perdita di controllo di spazio caduto sotto il controllo militare occidentale; perdita di controllo di mercato, con l’arrivo sempre più cospicuo di capitali industriali e commerciali, in paesi che Mosca considerava propri.
La guerra attuale, ben lungi dall’essere la causa dell’azione di “un folle” (vecchia, solita canzone, ripetuta a iosa dalle democrazie occidentali!) è dunque la logica conclusione delle prolungate frizioni che si sono prodotte tra due blocchi di interessi capitalistici contrapposti.
La questione dei gasdotti
In un tale contesto, i numerosi gasdotti che, attraverso mille canali, dal Baltico al Mediterraneo, arrivano dall’est in Europa sono diventati l’ago della bilancia dei presenti e dei futuri equilibri (o disequilibri) economici mondiali. Il grandioso progetto del Nord Stream 2 (il gemello del NS1), fortemente voluto da Russia e Germania (ciò che ha sollevato molti malumori in Francia e USA),
ha lo scopo di trasportare il gas direttamente dalla Russia attraverso il Mar Baltico. Ciò ridurrebbe grandemente il flusso che passa attraverso l’Ucraina (una capacità annua di 100 miliardi di m3), che ne trae attualmente una rendita valutata intorno a 3,5 miliardi di dollari all’anno [3]. L’American Protecting Europe’s Energy Security Act (nientemeno!) ha fatto bloccare la costruzione del gasdotto a partire dalla fine del 2019 e sono minacciate sanzioni contro chiunque voglia rimettere mano all’impresa: un modus operandi di chiaro brigantaggio nei confronti dei capitali russi e tedeschi, un chiaro segnale di sostegno agli amministratori ucraini.
La questione del NS2 ha dunque messo a nudo i veri rapporti di forza e le reali capacità di reazione dei singoli Stati coinvolti nell’affare. Essa ha mostrato con evidenza i profondi disaccordi tra gli Stati europei, e tra almeno alcuni di questi e gli USA. La guerra non ha fatto che confermare le tensioni e aumentare il nervosismo del governo tedesco, che si vede messo sul banco degli asini, costretto a inghiottire l’amarissimo boccone del blocco delle proprie iniziative nel fondamentale e strategico settore energetico, e nel dover mandare qualche indesiderato “aiuto militare” all’Ucraina (il meno possibile, per non scontentare il moscovita alleato commerciale!) – con l’unica consolazione di aver approvato un aumento delle spese militari, da tutto il mondo giudicato enorme, vero ossigeno per qualche settore dell’industria in crisi. Ma per difendersi da quale nemico? Da est, o da ovest?
Conclusione provvisoria
La guerra in Ucraina insegna alcune cose preziose.
La prima riguarda il modo con cui “aggrediti” e “aggressori” brandiscono le armi per raggruppare le “proprie” popolazioni sotto le bandiere della “difesa della Patria”, dei “diritti umani”, dei “sacri valori della libertà e dell’autonomia” e, per chi ce l’ha, del “sacro fuoco della democrazia”. Lo fanno, gli uni mettendo a ferro e fuoco le terre ambite, e anche quelle che sono venuti a “liberare”; gli altri, chiedendo a gran voce al proprio proletariato di brandire le armi e difendere il “suolo violato della Patria”, in nome del nazionalismo più carognesco. Ci sono poi gli spettatori interessati, quelli che non vogliono la guerra in casa propria e preferiscono farla in casa altrui e, ancor meglio, farla fare per i noti “valori sacri alla democrazia”. Intanto, scorrono gli affari, scorrono fiumi di armi e di soldi, scorre per le strade il sangue delle popolazioni.
La seconda riguarda lo scontato esito della guerra. Già anni fa, alcuni articoli su queste stesse pagine dimostravano, dati e fatti alla mano, come la balcanizzazione dell’Ucraina dovesse derivare necessariamente dallo scontro sul piano economico tra i diversi attori [4]. La guerra attuale non farà altro che sancirne la realizzazione, creando scenari ancora più cupi in un futuro prossimo.
La terza è il risultato della modificazione degli equilibri su scala mondiale: il probabile ruolo che spetterà alla Cina. In questo contesto, si situa la recente firma (settembre 2021) con cui USA, UK e Australia hanno sottoscritto, dopo mesi di contatti segreti, un accordo militare (Aukus) il cui scopo è quello di “difendersi” (siamo sempre lì: si vis pacem, para bellum) dall’attivismo cinese economico (e non solo) in tutta l’area pacifico-indiana. Le consuete “ragioni di sicurezza” hanno convinto i governi cinesi, negli ultimi decenni, a creare tutta una catena di porti commerciali-militari lungo le rotte per l’occidente (da Sittwe in Myanmar a Chittagong in Bangladesh, a Hambantota in Sri Lanka e a Gwadar nel Belucistan pakistano, a due passi dal confine iraniano, insieme ad altri minori). Dica il lettore se non trova qualche rassomiglianza tra la stipulazione del patto Aukus di cui sopra, atto a formare un cordone sanitario attorno alle iniziative cinesi sui mari e sulle coste indo-pacifiche, e la morsa a tenaglia che pazientemente la NATO, come longa manus americana, ha tessuto attorno ai confini occidentali e meridionali della Russia! Quanto sia possibile un’alleanza strategico-militare-economica più vincolante tra la Cina e la Russia dipenderà dall’evoluzione della crisi economica mondiale, e forse, per la risposta, non dovremo attendere a lungo.
Il quarto, per noi più doloroso, motivo di riflessione è la mancanza di una organizzata risposta di classe allo strapotere ideologico, economico e militare della borghesia mondiale di fronte a tutte le crisi, economiche e militari e alle inaudite sofferenze che esse causano al proletariato di tutti i paesi. Le ragioni le conosciamo molto bene, e da oltre mezzo secolo le andiamo esponendo sulle pagine del nostro giornale: il tallone di ferro chiodato della democrazia, del fascismo e dello stalinismo, alleati per sopprimere ogni tentativo di rivolta, per sbarrare ogni sia pur esile ed embrionale moto di classe. L’unica via (faticosa fin che si vuole, ma l’unica) è quella di rompere in ogni paese la pace sociale, negare ogni credito di guerra per ogni guerra del Capitale, ritrovare la bandiera del disfattismo di classe in nome dell’internazionalismo proletario.
[1] Tra gli altri, “Ucraina: i destini della rivoluzione arancione”, il programma comunista, n.6/2004; “In Ucraina, neutrali e ingaggiati”, il programma comunista, n. 3/2015.
[2] Il Messaggero, 4 gennaio 2015.
[3] K. Westphal, M. Pastukhova, J.M. Pepe, “Nord Stream 2: Leverage Against Russia? Point of View”, 14.09.2020, in Stiftung Wissenschaft und Politik, German–Institute for International and Security Affairs https://www.swp-berlin.org/en/.
[4] “Ucraina: i predatori imperialisti e il proletariato”, il programma comunista n. 3 e 4/2014; “Ucraina: guerra e nazionalismi”, ibid. n. 2/2015.
31/05/2022