Quando la cosiddetta “operazione militare speciale” russa in Ucraina dovesse concludersi, apparirà evidente a chi non si accontenti di guardare la realtà attraverso le lenti deformanti dell’ideologia dominante che l’eventuale “pace” (armistizio? cessate il fuoco? che altro?) sarà soltanto una pausa più o meno lunga, prima dell’aprirsi di un ulteriore capitolo nella corsa precipitosa verso un terzo macello mondiale inter-imperialista.
Indietro non si torna.
Ciò non sta certo scritto nelle stelle o nella psicologia di questo o quell’altro individuo chiamato sulla scena della storia a recitare la parte del governante di turno, ma nella materialità delle dinamiche del modo di produzione capitalistico.
Se ne leggono le avvisaglie nell’accumularsi di tensioni nell’area indo-pacifica, nel sempre più stretto legame russo-cinese, nell’aggressività politico-militare del capitalismo USA, nella ridicola “unità europea” che sotto la pressione degli interessi capitalistici nazionali mostra la propria inconsistenza, nel delinearsi sia pure tortuoso e ancora fluido di fronti o blocchi contrastanti...
In realtà, una volta sottoposti gli stessi dati che la cosiddetta “scienza economica” borghese fornisce alla lucidità della nostra critica dell’economia politica, risulta chiaro che il modo di produzione capitalistico non è mai uscito dalla sua crisi più recente (quella scoppiata nel 2008-9). A sua volta, quella crisi era l’esito ultimo, in termini di tempo, della sequenza di crisi apertasi a metà anni ’70 del ‘900, quando il ciclo di accumulazione conseguente alla Seconda guerra mondiale s’è definitivamente chiuso. La crisi strutturale di sovrapproduzione di merci e capitali in cui siamo immersi da allora è all’origine della necessità di un’intensificazione nella normale conflittualità tra gli Stati borghesi.
I due anni di pandemia, con le disperanti follie emergenziali messe in campo ovunque da una classe dominante pronta a trasformare l’ennesima tragedia da lei stessa causata in fonte di ulteriori profitti, di sperimentazioni sociali (oltre che sanitarie) e di retorica patriottarda, hanno permesso di allontanare per un poco lo sguardo dallo spettro, che invece ora si mostra in tutto il suo macabro volto.
Com’è dimostrato dalle stesse leggi che reggono il modo di funzionare del Capitale, la borghesia è ormai una classe utile solo a monopolizzare la ricchezza prodotta, con la dittatura che esercita attraverso gli Stati.
E, come tutte le classi dominanti espressione di forme di produzione ormai giunte al capolinea, difende e difenderà il proprio dominio con tutta la ferocia possibile: altre “operazioni militari speciali”, altre “missioni di pace”, altre guerre e guerricciole con relativi massacri di popolazioni proletarie e proletarizzate, altre distruzioni di massa, altre oscene mobilitazioni ideologiche, altre repressioni di qualunque voce di dissenso, fino allo scatenamento di tutti contro tutti.
E, nell’immediato, già si prepara l’ulteriore “emergenza”: quella alimentare!
Da comunisti, abbiamo imparato che solo la mobilitazione proletaria può impedire la guerra imperialista e/o trasformarla in una vera e propria guerra di classe.
È vero: ma questo non può ridursi a uno slogan retorico o all’aspettativa di una azione istintiva.
Questa mobilitazione, questo disfattismo rivoluzionario per il quale lavoriamo, in un teatrino che risuona invece di vuota retorica, di tracotante spacconeria, di velleitarismo autoreferenziale, è un percorso tutt’altro che semplice e facile: soprattutto, è un obiettivo pratico che va preparato in largo anticipo, tra i ranghi della nostra classe, il proletariato internazionale.
Ed è proprio questo il punto.
In questi ultimi tre mesi insanguinati, ancora una volta il grande assente sembra essere stato proprio lui: il proletariato.
Certo, in molti sussulteranno a questa nostra affermazione e usciranno in roboanti urla di scandalo. Ma, con questa affermazione, non vogliamo certo rovesciare colpe sulla nostra classe né intendiamo alimentare disillusione e rassegnazione: diciamo invece che non possiamo e non dobbiamo creare illusioni.
La nostra classe è ancora schiacciata sotto il peso tremendo di decenni di micidiale controrivoluzione, la più terribile e profonda che il movimento proletario e comunista sia stato costretto a subire nella sua storia: una micidiale controrivoluzione che, all’insegna di democrazia, stalinismo e post-stalinismo, nazi-fascismo, ha voluto dire lo smantellamento teorico, pratico, organizzativo dell’enorme lavoro compiuto fin dal 1848.
Non ci si rialza di colpo da un disastro simile che ha schiacciato la nostra classe nella miserevole condizione di classe in sé e ha rinchiuso le sue lotte negli angusti limiti di un economicismo tollerato e compatibile con gli interessi di tutti i capitali nazionali.
Lo si è potuto vedere anche e proprio in questi tre mesi.
Al di là di pochi, sparsi e purtroppo ininfluenti episodi di “anti-militarismo” (riassumibili negli isolati e presto dimenticati rifiuti di caricare armi sulle navi o nei picchetti che qua e là hanno bloccato per qualche ora le merci nei poli della logistica), non c’è stata, né in Italia né altrove, una vera opposizione classista alla guerra, capace di andare ben oltre un belante e pretesco pacifismo – un pacifismo che, come ben sappiamo, può cambiare presto di casacca e, sull’onda dell’indignazione morale, aprire la strada al più convinto interventismo bellico, “in difesa della Patria aggredita”.
Questa condizione di passività, di sbigottimento, di antimilitarismo puramente retorico e umanitario si è rivelata anche nell’esito non esaltante delle recenti manifestazioni “contro la guerra”, tenutesi per l’appunto in Italia e altrove: tardive, segnate dai soliti inutili litigi inter-gruppi, scarse nella partecipazione e soprattutto prive dello spirito militante che ci si dovrebbe attendere da manifestazioni contro la guerra imperialista.
Cortei colorati, traboccanti di buoni sentimenti, e poi tutti a casa.
Fatto ancora più triste – e significativo – né dalla Russia né dall’Ucraina sono giunti segnali di una pur flebile azione disfattista contro l’avventura bellica dei “propri” Stati, contro questa guerra borghese, imperialista (l’unica voce fuori dal coro che abbiamo potuto ascoltare viene da un piccolo e combattivo “gruppo operaio” siberiano).
Lo sappiamo: ci attireremo ancora una volta gli anatemi e le pernacchie di chi, per mettersi la coscienza a posto, crede che non si possa fare altro e soprattutto non si debba fare e rischiare altro.
Eppure, se (e poiché) ci si deve battere contro la guerra scatenata dagli Stati imperialisti, ci si deve preparare alla guerra di classe, a partire dalla condizione in cui si trova la nostra classe oggi nel mondo.
È, questo, un lavoro che può essere svolto solo dai combattenti proletari organizzati e raccolti intorno al partito comunista: difficile, faticoso, mai finito, a contatto e nei ranghi della nostra classe, tra coloro che non sanno nemmeno di essere una classe.
Le polveriere non mancano, in giro per il mondo: dall’Africa all’Asia o all’America Latina, a più riprese sono esplose, per essere tuttavia presto incanalate nell’alveo di rivendicazioni democratiche piccolo-borghesi dopo un grosso tributo di sangue proletario, senza però che se ne eliminassero le cause. E possono tornare a esplodere da un momento all’altro. Proprio per questo non ci si può aspettare che cali dal cielo la direzione rivoluzionaria, come vorrebbero in troppi.
Nonostante le sconfitte proletarie, il partito comunista è l’unica espressione politica possibile della nostra classe. E compito dei suoi combattenti è risvegliare il senso fisico dell’antagonismo sociale, ravvivare l’odio di classe, propugnare l’opposizione totale allo Stato borghese (a tutti gli Stati borghesi), risvegliare la diffidenza verso tutte le sue istituzioni, negare gli interessi nazionali e l’economia nazionale, sbugiardare i partiti riformisti e i loro programmi utopistici e conservatori.
Per essere efficace (cioè, per permettere alla nostra classe di portare alle estreme conseguenze la lotta di classe: costituirsi in classe dominante), una direzione ha bisogno dell’azione di chi abbia saputo, per tempo e da tempo, combattere, costituendosi in partito, per preparare, non certo la rivoluzione (le rivoluzioni non si fanno), ma la classe alla rivoluzione (le rivoluzioni si dirigono).
Il nostro partito continuerà le sue battaglie per la difesa del programma comunista, per la preparazione del proletariato al processo rivoluzionario, perché possa condurre fino in fondo questo processo e si costituisca finalmente in classe dominante: con la difficile pratica della politica rivoluzionaria (unità operativa di organizzazione, tattica, programma, principi, teoria), a contatto e nei ranghi della classe di cui siamo, nel bene e nel male, l’espressione. Nonostante le fanfaronate di gruppi e gruppetti auto-proclamatisi “antagonisti”, “internazionalisti”, ”anticapitalisti”.
31/5/2022