Per quello che ci dice, la sequenza di avvenimenti che ha caratterizzato la prima metà di questo 2023 va considerata e compresa nel suo insieme, senza isolare le singole componenti.
Dopo la grande fiammata della rivolta delle giovani proletarie e dei giovani proletari d’Iran nell’autunno del 2022, che ha mostrato quanto sia arduo per lo Stato – braccio armato della classe dominante – contenere la rabbia degli sfruttati, nei primi mesi di quest’anno un’ondata di agitazioni sindacali ha investito la Gran Bretagna, toccando molti settori del mondo del lavoro. Trascorso poco tempo, in Francia sono dilagate, per parecchie settimane, le partecipate mobilitazioni contro la riforma delle pensioni. Nel frattempo, forti agitazioni hanno percorso il mondo del lavoro tedesco. E per il momento possiamo fermarci qui.
In tutti questi casi, a scendere in lotta e in strada sono stati soprattutto (ma non solo) lavoratori e lavoratrici in qualche modo “protetti”, ma sempre più minacciati della perdita di una parte delle misere “garanzie” strappate nel tempo. E ci sono stati fragili tentativi di istituire, nella lotta e non a tavolino, organismi di base per aggirare il controllo (sempre massiccio e infine determinante nel diluire e fare rientrare le proteste) delle potenti strutture sindacali ampiamente integrate nello Stato: fragili tentativi come quello degli Angry Workers of the World in Gran Bretagna, dei “comitati di sans papiers” o di netturbini in Francia, della “Rete per i sindacati combattivi” in Germania – organizzati, pur con tutti i loro limiti, dai lavoratori più sfruttati che così hanno fatto sentire la propria voce e la propria combattività.
A quel punto, a luglio, è esplosa la rivolta nelle banlieues francesi: una rivolta spontanea, più individuale che collettiva, che ha investito numerose città e cittadine ben oltre Parigi ed è stata il sintomo rivelatore della frustrazione e oppressione profonda di un proletariato giovane e marginalizzato.
A fronte di ciò, in Italia, a parte le lotte generose di settori ultra-sfruttati, in larga maggioranza proletari immigrati, spesso condotte in disperato isolamento e sottoposte alla più carognesca persecuzione di magistratura e “forze dell’ordine”, tutto pare marcire nella falsa contrapposizione ultra-democratica “fascismo/anti-fascismo”, mentre la classe dominante nazionale procede nello smantellamento di “garanzie” e di quel poco di welfare rimasto dagli anni “gloriosi” dell’economia a pieno ritmo... un processo che, insieme a quello dell’irrobustimento dei sistemi di stretto controllo e aperta repressione anti-proletaria, coinvolge tutti i Paesi, con ritmi e intensità magari diversi, ma sempre orientati alla salvaguardia di uno status quo in crisi ormai da decenni e senza una via d’uscita che non sia quella della preparazione di un nuovo conflitto mondiale in cui bruciare e distruggere quanto s’è prodotto in eccesso, insieme a una considerevole quota di sovrappopolazione proletaria.
Già, la guerra – anzi, le guerre: non le dimentichiamo. In Ucraina, assistiamo a un progressivo cronicizzarsi e incancrenirsi dell’Operazione Militare Speciale (sic!) russa, senza che questo susciti reali e significative risposte classiste e disfattiste, nell’un paese o nell’altro. Intanto, nell’Africa sub-sahariana da decenni martoriata dai predoni imperialisti, si riacutizza lo scontro sul cadavere ormai marcio del vecchio colonialismo francese (dopo il Mali, il Niger e, in misura forse meno eclatante, il Senegal e, più di recente, il Gabon), complice anche il processo di penetrazione russo e cinese – altro episodio, quello che coinvolge il Niger e il Gabon, che non può essere letto attraverso la lente di una “rivolta” a un preteso “neo-colonialismo” (come in molti si affannano a dichiarare), ma che è un nuovo capitolo dello scontro inter-imperialistico in atto, anche in questo caso, da decenni. Nel Sud-Est asiatico, poi, restano criticamente aperte la “questione Taiwan” e più in generale quella del controllo militare del Mar Cinese Meridionale, mentre nel più vicino Medio Oriente, già ospite delle... Missioni di Pace (sic!) made in USA, prosegue spietato il massacro di proletari palestinesi a opera dello Stato d’Israele, con la complicità più che evidente delle borghesie arabe della regione, quella palestinese compresa. Intanto, in maniera non più tanto sotterranea, si manifesta sempre più il contrasto, economico-finanziario, fra Stati Uniti e Cina e si assiste a tentativi non sempre riusciti, da parte di “giovani” imperialismi (i cosiddetti Brics), di delineare concrete alternative agli equilibri che hanno dominato i lunghi decenni del secondo dopoguerra. Quanto all’Europa... be’, è più che evidente, una volta ancora, che essa non esiste come soggetto politico unitario: per di più con la Germania, già locomotiva trainante, entrata ora in recessione...
Tutto ciò (e altro ancora: ci limitiamo qui a una veloce sintesi, con buona pace dei “geo-politici” che ci inondano di analisi per non far capire niente) avviene su un pianeta che risente visibilmente degli effetti devastanti di soli tre secoli di produzione per il profitto, fra disastri “naturali”, inquinamento massiccio, erosione e dilapidazione delle risorse, cementificazione scatenata, e le altre delizie che ben si conoscono, ma di cui non si vuole comprendere (meglio: si dice e si scrive di tutto, pur di nascondere) il legame diretto con il modus operandi del Capitale, con il risultato di alimentare una diffusa e impotente angoscia esistenziale, specie nelle fasce giovanili.
Il quadro, insomma, è quello di un capitalismo mondiale in affanno distruttivo e autodistruttivo di fronte alla crisi di sovrapproduzione che si trascina dalla metà degli anni ’70 del ‘900; di una classe dominante impegnata, nelle sue declinazioni nazionali, a tagliare il più possibile (come ha sempre fatto nei ricorrenti periodi di crisi) i “rami secchi e improduttivi”, a irrobustire in ogni maniera le strutture di controllo nei confronti del proprio nemico storico e a prepararsi a un nuovo conflitto inter-imperialistico mondiale; e di un proletariato ancora in gran parte soffocato dal peso dei decenni di controrivoluzione che gli hanno strappato non solo il senso della propria forza potenziale e la memoria del proprio orgoglioso passato di lotta, ma anche la speranza di un “mondo nuovo”, l’anelito per una società senza classi.
Davanti a questo quadro che nei prossimi mesi potrebbe conoscere ulteriori, drammatici sviluppi e accelerazioni in una progressione incalzante, risulta sempre più netta l’esigenza del rafforzamento e radicamento internazionale del partito rivoluzionario: cioè, di un'organizzazione politica stabile, fondata su posizioni teorico-politiche e tattico-strategiche solide e frutto di analisi approfondite e di una lunga esperienza militante, che sappia collegare tutti questi elementi e ricondurli alla loro radice profonda (la sopravvivenza di un modo di produzione da tempo condannato dalla storia) e, così facendo, riproporre la prospettiva reale della presa del potere e della dittatura del proletariato, indicandone sia la sostanza reale sia la via, lunga e complessa ma necessaria, per raggiungerle.
Resta urgente la soluzione dei problemi intorno a cui non può non dibattersi la lunga, disastrosa e sanguinaria agonia del Capitalismo. Che cos’è il Comunismo, contro tutte le mistificazioni e manipolazioni ideologiche di cui, da un secolo e a tutti i livelli, s’è nutrita, ubriacandosene, la controrivoluzione. Che cosa sono e in che cosa consistono la dittatura del proletariato e il ruolo in essa del partito rivoluzionario. Qual è il rapporto dialettico che deve unire il partito rivoluzionario e la classe proletaria nel corso accidentato, fatto di avanzate e di arretramenti, delle sue lotte. Che caratteri, che struttura politico-organizzativa e quali compiti teorico-pratici deve avere il partito rivoluzionario in quanto avanguardia militante del proletariato. Che cosa è successo al movimento operaio e comunista mondiale nel corso dell’ultimo secolo, al di là delle narrazioni di comodo sfornate dall’ideologia dominante attraverso i suoi manutengoli opportunisti. Come operare realisticamente per il disfattismo rivoluzionario contro le guerre in atto e soprattutto contro quelle che si preparano. Che cosa vogliono dire realmente “democrazia” e “fascismo” nella fase imperialista del capitalismo e come lottare contro entrambi. Che cosa implica, dal punto di vista della strategia rivoluzionaria, la chiusura definitiva, a metà degli anni ’70 del ‘900, del ciclo delle rivoluzioni nazionali e anti-coloniali....
A questi problemi, e a molti altri ancora, noi, pur minoritari e contro-corrente, abbiamo risposto nel corso di decenni e decenni di lotta senza quartiere al multiforme nemico borghese: non certo come in uno sterile esercizio intellettuale, ma a contatto con la nostra classe, nelle sue lotte e nelle sue esperienze, positive e negative, per prepararla alla rivoluzione, non importa quanto ancora lontana essa possa apparire ed essere. E continueremo a farlo perché è solo intorno a queste risposte che possono coagularsi nuove generazioni rivoluzionarie, intenzionate davvero, e non solo a parole o con logorroiche esercitazioni di retorica, a farla finita una volta per tutte con questo mostro vampiresco che ha nome Capitalismo. Ma ciò richiede un lungo e profondo lavoro: lo dimostrano sia le inerzie che ancora frenano la nostra classe sia le sue improvvise esplosioni che però, in questa situazione, senza i chiari e precisi obiettivi politici indicati da una presenza e un’azione capillare del Partito rivoluzionario, lasciano poco o nulla – e, purtroppo, più frustrazione che concreta esperienza positiva.
Solo in questo modo sarà possibile contrapporre il nostro programma (gli obiettivi storici di un proletariato finalmente rivoluzionario, verificati e confermati alla luce delle lezioni della più lunga controrivoluzione che il movimento proletario e comunista abbia dovuto subire) tanto alla stupida tracotanza dell’ideologia dominante quanto al ruolo nefasto di un riformismo che, pur non potendo contare più come un tempo sulle briciole sparse da un capitalismo in espansione per illudere i proletari e le proletarie, continua a esercitare il proprio ruolo paralizzante e castrante; e liberarsi anche dall’abbraccio scomposto di mezze classi che, in cerca di un’impossibile identità sociale e culturale, veicolano tutti i miasmi sprigionati dal corpo in decomposizione di un modo di produzione giunto al proprio capolinea storico e, così facendo, lo mantengono ancora in vita.