Nei nostri articoli, volantini, interventi dedicati all’ennesimo macello che da mesi si sta consumando nella Striscia di Gaza a opera dello Stato israeliano, abbiamo sempre insistito nell’usare il termine proletariato invece che “popolo”: proletariato palestinese, o arabo, o medio-orientle. Non è un vezzo linguistico, il nostro: “popolo” rimanda all’insieme delle classi, è termine inter-classista, che implica una visione nazionale, mentre la nostra prospettiva, quella entro la quale e per la quale da sempre lavoriamo in quanto comunisti, è una prospettiva che, specie nella fase imperialista, ha al centro una sola classe, quella per l’appunto proletaria, e quindi non s’identifica con il “popolo”, con la “Nazione”, con la “Patria”, con lo “Stato borghese”. Che, anzi, li combatte tutti, e così facendo (solo così facendo!) prepara la nostra classe alla sua rivoluzione.
È in questi termini che abbiamo risposto a chi, in una situazione di piazza, criticava, anche in modo arrogante e aggressivo, un nostro volantino, perché attaccava “le borghesie arabe della regione (compresa quella palestinese)” per il tradimento da sempre consumato ai danni del proletariato di Gaza e Cisgiordania. La cosa d’altra parte non ci meraviglia: siamo ben consapevoli che la nostra prospettiva è minoritaria e contro-corrente: ma non ci sono altre vie e tutte le presunte scorciatoie portano solo al disastro e ad altro sangue proletario versato inutilmente.
Ma di chi parliamo, quando parliamo di proletariato palestinese? Per rispondere ci basiamo sia su un nostro articolo del 1979 (“Il lungo calvario della trasformazione dei contadini palestinesi in proletari”, n.20-21-22 di questo giornale) sia, senza necessariamente condividerne le valutazioni politiche, su uno studio di Alessandro Mantovani uscito sul sito www.rottacomunista.org (“Il ‘proletariato’ palestinese. Un po’ di cifre”), a sua volta basato su un ampio ventaglio di fonti diverse. Cominciamo dunque dall’inizio.
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La creazione e lo sviluppo dello Stato d’Israele sono evocati dall’ideologia dominante borghese come una delle epopee idilliache per le quali essa nutre un gusto tutto particolare: non si è forse fatto fiorire il deserto grazie alle virtù mai abbastanza lodate di questo “piccolo popolo”? Questa favola compiacentemente diffusa nasconde in realtà il dramma dell’espropriazione della popolazione contadina. Certo, tutte le zone del pianeta aperte l’una dopo l’altra alla penetrazione del capitalismo hanno conosciuto questo dramma: ma in Palestina quel dramma è stato spinto a un grado di cinismo e barbarie raramente eguagliato. Dappertutto la borghesia e i suoi ideologi hanno tentato di negare puramente e semplicemente l’esistenza di questa espropriazione, al fine di preservare la purezza filantropica della loro opera. In Palestina, hanno negato perfino l’esistenza della popolazione espropriata: “una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Non è più semplice?!
“È noto che nella storia reale – scriveva Marx — la conquista, il soggiogamento, l'assassinio per rapina, insomma la violenza, campeggiano. Nella mite economia politica [...] diritto e ‘lavoro’ sono stati da sempre gli unici mezzi per arricchire, eccezion fatta, naturalmente, per l'anno di volta in volta ‘in corso’. In realtà, i metodi dell'accumulazione originaria sono tutto quel che si vuole fuorché metodi idilliaci” (1).
Il “paradiso” del Negev, la fiorente coltura degli agrumi e degli avocado nelle piane costiere, come pure il boom industriale (anche se alla scala di un piccolissimo paese) presuppongono la spogliazione totale dei contadini palestinesi. La storia della loro espropriazione assomiglia a quella dei contadini inglesi di cui parlava Marx: “la storia di questa espropriazione è scritta negli annali dell'umanità a caratteri di sangue e di fuoco” (2). Vediamola.
Dal Codice ottomano alla grande rivolta del 1933-1936
Il calvario dell'accumulazione primitiva, o piuttosto della sua riedizione palestinese, che non è se non l'atto più clamoroso di un dramma che ha colpito l'insieme della regione, risale alla metà dell’800. Più precisamente, al 1858, con l'istituzione del Codice della proprietà fondiaria da parte dell’Impero Ottomano, di cui la Palestina faceva parte con altri paesi del Medio-Oriente. Questo impero arcaico poteva rivaleggiare, sia pure per un istante, con le potenze moderne dell'Europa, solo accentuando il suo giogo sulle masse contadine. Lo scopo di questo Codice era di rendere individuale la proprietà del suolo fino allora collettiva o tribale. Le imposte, invece di essere pagate collettivamente, dovevano ormai essere individualizzate, impegnando così la responsabilità personale del singolo in caso di non pagamento e indebolendo la resistenza all'onere fiscale crescente.
I contadini che godevano del frutto della terra e del suo uso secondo le regole dell’organizzazione del villaggio o di tribù vi reagirono in modi diversi. Alcuni rifiutarono semplicemente di applicare la legge e non procedettero mai all'iscrizione delle terre: sono questi che, all'atto della creazione dello Stato d'Israele nel 1948, furono espulsi dalle loro terre, sotto pretesto che non avevano alcun titolo di proprietà. Altri non dichiararono allo Stato che il terzo coltivato annualmente, lasciando da parte i due terzi a maggese. Altri ancora fecero registrare una superficie inferiore a quella coltivata, sapendo bene che il controllo effettivo dello Stato ottomano non poteva raggiungere tutti. Numerosi villaggi infine fecero registrare l'insieme delle terre al nome dei notabili che pagavano meno imposte o ne erano dispensati: giocavano cosi sull'usanza per cui l'impero, handicappato dalla sua estensione, doveva comprare i notabili per evitare che fossero tentati di mettersi alla testa di rivolte contadine contro il potere centrale.
L'applicazione del Codice portò quindi a un rafforzamento del ruolo dei notabili: divenuti proprietari in origine “per rendere servizio”, era inevitabile che un giorno i loro eredi cercassero di trarre profitto da un titolo che nessuno aveva voluto. Dal canto suo, lo Stato sfruttò la norma del Codice in virtù della quale le terre senza proprietari (di fatto, le terre a maggese o non dichiarate) erano considerate proprietà demaniali (terre miri), e prese a vendere, in virtù di questo diritto di proprietà, vaste tenute a commercianti libanesi, siriani, egiziani e iraniani. Questi ultimi tentarono, con più o meno successo a seconda del grado di resistenza dei contadini, di prendere effettivamente possesso del suolo; quelli che non vi riuscirono conservarono i loro titoli, che anni dopo avrebbero concesso, a prezzi molto interessanti, alle organizzazioni sioniste.
Il risultato di questo processo fu una concentrazione accresciuta della proprietà fondiaria, benché le strutture economiche non avessero ancora conosciuto profondi rivoluzionamenti, dato che i contadini conservavano in generale il possesso effettivo del suolo, anche se ne avevano solo in parte la proprietà giuridica. Tale era il quadro alla vigilia della Prima guerra mondiale, al termine della quale la Sublime Porta (l’Impero Ottomano) dovette cedere il passo alla Gran Bretagna.
L'interesse che quest'ultima riservava alla Palestina si spiega con la sua posizione strategica presso il canale di Suez e con la preoccupazione di impedire la nascita di un vasto movimento anti-imperialista, con l'introduzione di uno Stato vassallo che tagliasse in due una zona in cui si andava svegliando un sentimento nazionale unitario. Così, il gioco dell'imperialismo britannico si unì agli interessi del capitale sionista per dar vita a un progetto comune, consistente nel creare uno Stato allo stesso tempo gendarme locale e impresa coloniale.
Se il capitale sionista tentò di installare delle colonie in Palestina già prima della caduta dell'Impero Ottomano, è poi sotto il mandato britannico che esso poté realizzare su vasta scala il suo piano, grazie al concorso, in particolare, della Fondazione Rothschild, ma sconvolgendo questa volta da capo a fondo i rapporti di produzione (3). L'acquisto delle terre a opera della J.C.A. (Jewish Colonization Association), costituita allo scopo, non poteva naturalmente significare che l'espropriazione dei mezzadri e coltivatori palestinesi. In effetti, se i titoli di proprietà erano detenuti dai grandi proprietari assenteisti, che ne cedettero senza difficoltà la schiacciante maggioranza fin dai primi anni, la terra alla quale questi titoli si riferivano era l’elemento indispensabile all’esistenza dei contadini palestinesi. Così, quanto all’origine della proprietà fondiaria ebraica secondo il tipo di venditore, ecco che, nel biennio 1920-22, la percentuale delle terre vendute da proprietari assenteisti era del 75,4, quella delle terre cedute da grandi proprietari residenti era del 20,8, quella delle terre cedute da fellah (contadini) era del 3,8; dieci anni dopo, nel triennio 1933-36 (all’alba della prima grande rivolta sociale), le percentuali erano rispettivamente del 14,9, del 62,7, del 22,5 (3bis). I numeri parlano chiaro: un rapido e profondo processo di concentrazione ed espropriazione era in corso.
Il piccolo contadino espropriato, il fellah, divenne così lavoratore agricolo sulla propria terra. La situazione di sfruttamento feroce della manodopera locale da parte del capitale sionista all’inizio del nuovo secolo si aggravò con il principio del “lavoro ebraico”, utilizzato a salvaguardia del piano di insediamento colonialista, in virtù del quale l'immigrato cacciò il fellah dal suo lavoro, mentre i fondi sionisti si incaricavano di finanziare la differenza di salario per permettere l'impiego di manodopera europea. Questa situazione non poteva prolungarsi senza urti violenti, perché ai contadini espulsi non era lasciata altra possibilità che di crepare guardando i coloni installarsi al loro posto. Di qui le rivolte sociali quasi permanenti del 1921, 1925, 1929, 1933, 1936, есс.
Nel 1921, tre anni dopo l'arrivo degli inglesi, la situazione era tale che una vera insurrezione scoppiò in tutto il paese. Le regioni più toccate furono Safad nel Nord, Hebron e Gerusalemme al centro. La collera contadina si rivolse essenzialmente contro i sionisti, le cui colonie furono duramente attaccate. L'esercito inglese si incaricò di ristabilire “la calma e la pace” (esso ha sempre mostrato un debole per questo genere di missione!). Per nobili motivi, evidentemente, fu costretto a reprimere la “minoranza” irresponsabile: esecuzioni sommarie, impiccagioni, ecc.
Queste rivolte culminarono in quella del 1936, che durò tre anni e si accompagnò a un magnifico sciopero generale urbano durato sei mesi. La sua forza non era più il contadiname o la borghesia, ma già un proletariato agricolo spogliato dei suoi mezzi di lavoro e di sussistenza ed embrione di una classe operaia essenzialmente concentrata nei porti e nella raffineria di petrolio di Haifa. Va d'altronde segnalato che il movimento attecchì prima nelle città, per poi guadagnare rapidamente le campagne, dove si organizzava una guerriglia diretta sia contro i proprietari fondiari palestinesi sia contro i colonizzatori inglesi e sionisti. Numerosi furono infatti i proprietari presi di mira dai rivoluzionari palestinesi per aver venduto la terra ai sionisti: per i contadini spogliati, era chiaro che era dalla loro miseria che si arricchivano gli speculatori fondiari.
La contro-rivoluzione staliniana e l'assenza in Europa di un movimento rivoluzionario in grado di venire in aiuto alla rivoluzione palestinese lasciò sola quest’ultima di fronte alla macchina da guerra dell'imperialismo britannico, che però dovette unire al terrore delle armi le promesse di indipendenza e altre manovre simili per venirne a capo, chiedendo perfino aiuto ai feudatari arabi e ai reucci della zona al suo soldo. Questi ultimi invitarono “fraternamente” i palestinesi a far tacere le armi e ad aver fiducia nelle buone intenzioni del governo di Sua Maestà. E per aiutarli a capire meglio questo invito, le frontiere della Transgiordania (in cui regnava il nonno del macellaio di Amman, il principe Abdallah, ucciso nel 1952 da un palestinese) vennero chiuse ai guerriglieri che tentavano di rifugiarvisi o di procurarsi armi e viveri, così come ai volontari della regione tentati di unirsi agli insorti.
È da questa epoca che datano le leggi sulla responsabilità collettiva dei villaggi e distretti arabi, delizie terroristiche che il semi-barbaro dispotismo orientale lasciò in eredità al civilissimo capitalismo occidentale. Secondo queste leggi, gli abitanti dei villaggi sono costretti a ospitare i distaccamenti della polizia in operazione punitiva, e la popolazione è considerata responsabile delle operazioni condotte da chiunque nella zona; questa è dunque posta sotto legge marziale e gode sia del diritto alla distruzione delle case in cui i “ribelli” si sono rifugiati, sia agli internamenti amministrativi “per dare l’esempio”. È cosi che, in seguito a una operazione che aveva tagliato una linea telefonica in Galilea, tre villaggi vennero assediati dalle truppe britanniche: tutti gli uomini furono messi in fila, si fece la conta, e chi ebbe la disgrazia di cadere sul numero 10, sul 20, sul 30 ecc., venne fucilato davanti ai compaesani.
È con questi metodi che l'Inghilterra cristiana e democratica intendeva finirla con le rivolte dei contadini senza terra, senza pane e senza lavoro. 30.000 soldati furono incaricati di controllare una popolazione che non superava gli 800.000 abitanti! Tutti i dirigenti di scioperi furono imprigionati. L'aiuto prestato ai colonizzatori dai notabili feudali e religiosi postisi alla guida del movimento fu decisivo: in combutta con il principe Abdallah di sinistra memoria, essi non cessarono di pugnalare alla schiena la lotta, partecipando con gli inglesi alla ricerca di uno “sbocco” alla situazione. I britannici lanciarono una grande offensiva, durante la quale i villaggi insorti furono bombardati (gli israeliani ne seguono oggi il buon esempio) e si concluse con il bilancio di 5.000 palestinesi uccisi e 2.500 imprigionati (4). Lo slancio eroico degli operai e dei contadini palestinesi di quegli anni venne così spezzato. Il terribile isolamento in cui la situazione internazionale li confinava impedì al loro orizzonte di allargarsi e quindi alla loro rivolta di confluire con la lotta di tutte le masse sfruttate della regione contro il giogo coloniale e le vecchie classi dominanti. Essa fu però paralizzata anche dal peso dell'arretratezza sociale in cui vegetava il paese, e che si tradusse nella direzione semi-feudale e semi-religiosa del movimento.
Se la classe operaia non poté svolgere un ruolo più importante, è anche perché il partito che pretendeva di rappresentarla, il Partito Comunista Palestinese, seguiva un orientamento del tutto erroneo, d'altronde accentuato da un’Internazionale che di comunista non aveva più che il nome. Invece di delimitarsi da una direzione religiosa e reazionaria, il PCP, nel quale militava non solo una maggioranza di operai ebrei-sionisti, ma una minoranza di operai arabi, fu costretto dall’Internazionale stalinizzata a sostenere il muftì di Palestina, Hadj Amin Husseini, una specie di Khomeini ante litteram, se non peggio. Un tale indirizzo disorientò completamente i proletari e favorì nelle due parti lo sviluppo di tendenze nazionaliste. Gli operai arabi, vedendo il loro partito sostenere l'ala più reazionaria del movimento, lo abbandonarono per organizzazioni nazionaliste meno moderate; da parte loro, gli operai ebrei non potevano sostenere una posizione simile senza trovarsi totalmente disarmati di fronte alla propaganda ipocritamente “antifeudale” del sionismo. Qui come altrove, la controrivoluzione staliniana distrusse completamente il partito di classe, con tanta più facilità in Palestina in quanto il proletariato vi era ancora embrionale e, soprattutto, terribilmente diviso dalla situazione coloniale.
La rivolta del 1933-36, benché coraggiosa, fini quindi con un disastro completo. Nonostante il momentaneo rinculo della Gran Bretagna, costretta a limitare per qualche anno l'immigrazione ebraica, il movimento sionista non cessò di rafforzarsi. Invece, il movimento palestinese precipitò in uno stato di amarezza e delusione tale per cui si può, almeno in parte, far risalire al 1936 il doloroso epilogo della guerra del 1948.
La nascita di Israele e la guerra di espropriazione
Alla fine della Seconda guerra mondiale, il vecchio impero inglese cominciò a cedere il posto al colosso imperialista americano. Il movimento sionista vi si trovava tanto meglio in quanto la presenza inglese era divenuta importuna o addirittura insopportabile, spingendo anche diversi gruppi sionisti, ansiosi di costruire il loro Stato, a un movimento terrorista anti-inglese (l’Irgun, in cui si fece le ossa il futuro Primo ministro israeliano e... Premio Nobel per la Pace Menachem Begin, con numerose azioni militari e attentati con morti e feriti). La Gran Bretagna non aspirava più che a liberarsi delle sue responsabilità in Palestina, e passò la patata bollente all'ONU, la nuova “caverna dei ladroni”, costruita sulle ceneri della defunta Società delle Nazioni.
I preparativi per la costituzione di uno Stato ebreo portarono nel 1947 alla guerra arabo-israeliana. Mentre i delegati delle virtuose nazioni borghesi chiacchieravano nelle sontuose sale dell'ONU per sapere se un arabo e un ebreo potevano o no vivere insieme senza sgozzarsi (“con questi orientali, caro mio, non si sa mai”...), o se era meglio separarli con cavalli di frisia, lo Stato d'Israele vide la luce il 14 maggio 1948. Ciò provocò la gara fra Truman e Stalin a chi lo dovesse riconoscere per primo: ma, soprattutto, aprì alla grande la caccia ai palestinesi.
La storia aveva dato ancora solo un assaggio della barbarie capitalista: vuotare il paese della maggior parte dei contadini ridotti in miseria era ormai l'obiettivo confessato. Si trattava della riedizione in grande stile del calvario dei contadini scozzesi descritto da Robert Somers, che Marx cita nel capitoletto già ricordato del Capitale: “I proprietari [in questo caso, i sionisti – NdR] praticano il diradamento e la dispersione della popolazione come principio fisso, come necessità dell'agricoltura, esattamente al modo in cui nei deserti dell'America e dell'Australia si spazzano via gli alberi e le sterpaglie: e l'operazione indisturbata segue il suo corso” (5).
Per ragioni tanto internazionali quanto locali, Israele non poté allora occupare la totalità della Palestina. In effetti, il processo di espropriazione era meno avanzato in certe zone che in altre: così il Centro, più montagnoso, interessava meno ai sionisti; inoltre, nel quadro di una divisione patrocinata dall'ONU, lo Stato d'Israele non doveva costituirsi che su una parte della Palestina. La parte occupata fu in realtà più grande di quella prevista dal piano di spartizione: ma la Cisgiordania e la fascia di Gaza sfuggirono momentaneamente alla conquista sionista, la prima per andare al principe Abdallah, promosso nella stessa occasione re di Giordania dagli inglesi, la seconda per toccare all'Egitto. Quasi un milione di contadini e operai palestinesi furono cacciati dalle loro case. Questa volta, la borghesia se ne infischiò del sacro diritto di proprietà, della legalità e di altri specchietti per le allodole: furono la forza bruta, il terrore, il massacro e lo sterminio a essere eretti a legge suprema per servire di base a tutta la legalità ulteriore.
Inutile descrivere le condizioni miserabili in cui le masse palestinesi vennero confinate: non avevano nulla da invidiare ai campi di concentramento da cui erano appena uscite le centinaia di migliaia di ebrei, spinti laggiù dall'imperialismo facendo loro balenare l'Eden ritrovato. Comunque, questo milione di sradicati, di disoccupati forzati, doveva rompere per sempre il fragile equilibrio regionale e divenire l’epicentro delle rivolte sociali del Medioriente.
Nonostante l'accanimento delle autorità israeliane nell’espellere il maggior numero possibile di palestinesi, una minoranza riuscì a rimanere sul posto: 170.000 circa nel 1948, all'interno dello Stato di Israele. Questa popolazione ha dovuto subire un'inaudita oppressione, che non trova forse l'eguale se non nelle società coloniali d'Africa. Le popolazioni palestinesi dovettero passare sotto le forche caudine di un regime militare straordinariamente feroce, che non ha d'altronde altra base ”legale” che le famose ordinanze britanniche del periodo del Mandato, fra cui si devono ricordare le emergency defense regulations promulgate nel 1945 contro i moti di resistenza ebraici all'occupazione inglese.
Ecco due testimoni a carico. Per il primo, “la questione è la seguente: saremo tutti sottomessi al terrore ufficiale o vi sarà libertà senza processo [...], il ricorso in appello è abolito [...] i poteri dell’amministrazione di esiliare non importa chi e non importa quando sono illimitati [...]. Non è necessario commettere una qualunque infrazione; basta una decisione presa in qualche ufficio”. Per il secondo: “L'ordine stabilito da questa legislazione è senza precedenti nei paesi civili. Neppure nella Germania nazista esistevano simili leggi” (6).
Queste dichiarazioni furono rese in una riunione di giuristi a Tel-Aviv il 7 febbraio 1946 per protesta contro la repressione... coloniale inglese: la prima da Bernard (Dov) Joseph, futuro Ministro della Giustizia d'Israele; la seconda da J. Shapira, futuro Procuratore generale della Repubblica israeliana. Non sono occorsi due anni perché una simile barbarie “nazista” fosse utilizzata dai sionisti contro i palestinesi.
Ma la legislazione di cui si è detto non poteva bastare alla voracità colonizzatrice d'Israele, questo frutto mostruoso dell'amplesso fra sionismo e capitalismo occidentale. Urgeva perfezionare l'arsenale terroristico delle defense regulations, e lo si fece con le leggi successive, che, al coperto dello stato di guerra, tendevano a legalizzare gli espropri.
Uno dei capolavori di questa legislazione fu la “Legge sulla proprietà degli assenti”. A termini di essa, venne definito “assente” “chiunque nel periodo tra il 19 novembre 1947 e il 19 maggio 1948 fosse proprietario di un appezzamento situato in Israele e che in questo periodo fosse cittadino del Libano, dell’Egitto, dell’Arabia Saudita, della Giordania, dell’Iraq e dello Yemen; risiedesse in questi paesi o non importa dove, in Palestina fuori d'Israele; ovvero fosse un cittadino palestinese che avesse abbandonato il luogo di residenza in Palestina per stabilirsi in una regione tenuta da forze che abbiano lottato contro la formazione dello Stato d'Israele” (7).
Questo periodo corrisponde a importanti spostamenti di persone fuggite dalle zone degli scontri più aspri: quanti contadini, considerati “assenti” mentre si erano solo “spostati” di alcune centinaia di metri, videro le loro terre confiscate? Un'altra virtù di questa legge fu di accaparrare le terre e i beni del clero (un 6%): come dire, “Dio stesso era assente”!
Altro monumento del diritto: la famosa “Legge d'urgenza”. Essa permette di dichiarare certe regioni “zone chiuse”: un'autorizzazione scritta del governo militare è allora necessaria per accedervi. Secondo un'altra disposizione, se un villaggio è dichiarato “zona di sicurezza”, gli abitanti non hanno più il diritto di abitarvi. Più di dodici villaggi della Galilea hanno dovuto essere abbandonati per questa ragione: così vuole la legge! Altre norme della stessa natura sono state promulgate: una di esse permette di dichiarare certe regioni “Zona di sicurezza temporanea”, il che ha per effetto di impedire ai contadini di coltivare le loro terre, mentre un'altra autorizza lo Stato a confiscare le terre non coltivate “per un certo tempo”. Insomma, nulla sfugge alla legge...
A completare questa magnifica costruzione giuridica vennero le “Ordinanze sullo stato d'urgenza” del 1949, che completano le “Leggi d'urgenza” inglesi del 1945; esse conferiscono all'autorità militare, per i bisogni della “sicurezza pubblica”, il potere di perquisire abitazioni e veicoli, emettere mandati d'arresto, intentare processi sommari a porte chiuse e senza appello, limitare la circolazione delle persone, assegnarle a domicilio coatto, deportarle oltre frontiera. Per esempio, l'articolo 119 autorizza la confisca delle terre, mentre l‘articolo 109 permette all'esercito di vietare a chiunque di trovarsi nei luoghi da esso designati, e di dettare restrizioni relative all'esercizio di una attività produttiva. Si spiega così uno dei segreti della democrazia: questa può pagarsi il lusso di coprire la violenza aperta legata all’oppressione di classe – qui aggravata dall'oppressione razziale e nazionale – con il velo ipocrita del diritto (8).
Ecco dunque con quali mezzi il sionismo per conto del capitale ripulì la terra dei suoi abitanti. Si può dire che, già a fine degli anni ’70 del ‘900, l'espropriazione dei contadini palestinesi fosse pressoché finita nei territori occupati nel 1948 (9). La penuria di terreni si estende anche alle città e ai villaggi in cui la popolazione si pigia e dove i lotti sui quali si è autorizzati a costruire sono estremamente limitati.
Che ne è stato di questa popolazione, ancora essenzialmente contadina nel 1948, rimasta in Israele? Lo mostra la tabella che segue:
Ripartizione della manodopera araba fra i principali settori d'attività
In percentuale |
1954 |
1966 |
1972 |
|
|
|
|
Agricoltura |
59,9 |
39,1 |
19,1 |
Industria |
8,2 |
14,9 |
12,5 |
Edilizia e lavori pubblici |
8,4 |
19,6 |
26,6 |
Altri settori |
23,5 |
26,4 |
41,8 |
(Fonte: Annuaire statistique d'Israël, 1955-1973)
Non è indifferente notare che nel settore industriale la quasi totalità degli arabi sono salariati. Sulla popolazione attiva agricola, il 58% sono proletari, il che significa che nel 1972 meno del 10% degli arabi-israeliani era ancora legato alla terra. Quanto ai servizi, essi inglobano la maggioranza dei salariati, al punto che già nel 1970 gli operai e assimilati rappresentavano il 72% della popolazione attiva araba (10). La nuova generazione di palestinesi viventi in Israele è dunque essenzialmente operaia, benché continui ad abitare in zone rurali (74% della popolazione nel 1967).
Il villaggio che continua a ospitarli non è ormai che un ghetto nel quale lo Stato d'Israele si sforza di rinchiuderli. Questi operai sotto sfruttati, sottopagati (in molti casi il rapporto è di uno a due per lo stesso lavoro), sono obbligati a fare ore di strada in autocarri pieni zeppi per recarsi al luogo di lavoro e ritornarne. Questi proletari hanno subito un calvario fatto di miseria, di guerre, di umiliazioni e di massacri di cui conservano un ricordo indelebile (11). Il regime d'urgenza è stato bensì soppresso nel 1966, ma ciò non poteva significare la soppressione delle leggi che lo caratterizzano. Le prerogative del potere militare sono solo state trasferite ai diversi apparati dell'amministrazione civile, e, in particolare, alla polizia. In realtà, “quali che siano i diritti e le libertà riconosciute dalla legge o dal costume agli abitanti d'Israele, considerazioni di sicurezza sono sempre suscettibili di rimetterle in causa senza che formalmente sia infranta la legalità!” (12).
I pochi contadini rimasti sono stati ancora di recente vittime di questa possibilità di ristabilire con un sì o un no la legislazione terrorista. Così nel 1976, si sono tolti 10.000 ettari alla popolazione araba; questo attacco al poco che le restava ha provocato manifestazioni di massa, scioperi e scontri con la polizia e l'esercito. Quest'ultimo ha decretato il coprifuoco e invaso numerosi villaggi; sei arabi sono stati uccisi e diverse decine feriti. L'episodio è stato battezzato “Giornata della terra”. Soprattutto, questa legislazione è utilizzata contro ogni contestazione nei confronti dello Stato. E chi deve “contestarlo” di più, se non la classe operaia? In contatto dopo il 1967 con la nuova ondata di operai palestinesi sottoposti a loro volta al regime di occupazione a Gaza e in Cisgiordania, essa si risveglia tanto più arditamente alla lotta quanto più ha soffocato per troppo tempo la collera.
Nuova ondata espropriatrice con la guerra del 1967
La Palestina è un paese minuscolo: 27.000 kmq, qualcosa come il Belgio. Un terzo è desertico, la coltura vi è molto difficile e soprattutto molto costosa. Israele ne ha occupato nel 1948 quasi 21.000 kmq. È evidente che un quadro così esiguo non può soddisfare l'appetito di un capitale sionista pieno di ambizioni. In un tale contesto, l'espansione è una necessità, l'espansionismo una religione di Stato. Così, nel 1967, Israele si è impadronita della Cisgiordania e di Gaza, e il fenomeno del 1948 si è ripetuto. La fascia di Gaza era abitata nel 1967 da 450.000 palestinesi, di cui più di due terzi erano rifugiati provenienti dalla fertile piana di Giaffa da cui erano stati cacciati nel 1948. Più di 100.000 abitanti di Gaza, di cui molti prendevano la via dell'esodo per la seconda volta, furono costretti a rifugiarsi nei paesi vicini. La Cisgiordania, che contava circa 850.000 abitanti nel 1967, vale a dire prima dell'occupazione, non ne contava che 650.000 tre anni dopo, il che significa che 200.000 palestinesi hanno dovuto abbandonare tutto in questa regione per andare a finire nei campi di miseria chiamati “campi profughi”. Così, più di 300.000 persone sono state costrette, per una ragione o per l'altra, ad abbandonare le loro case, e per conseguenza sono state colpite dal divieto di ritorno in virtù della legislazione israeliana, così atta a fare il vuoto. La famosa “Legge sugli assenti” ha funzionato bene: 33.000 ettari sono caduti sotto la sua scure. Il 16% del totale delle terre appartenenti allo Stato o alle collettività è automaticamente passato all'occupante. Israele ha pure requisito oltre 10.000 case appartenenti ad “assenti” trasformati in profughi nei campi. Ma questo procedimento è tutto sommato abituale. Altri, più raffinati, sono stati scoperti: è così che nel villaggio di Akraba, in Cisgiordania, i sionisti hanno distrutto le colture irrorandole di prodotti chimici. È necessario aggiungere che lo Stato ha rispolverato tutto il suo arsenale terrorista? Si sono avute migliaia di espulsioni, come ha dichiarato alla Knesset l'ex ministro della difesa Simon Peres; 23.000 palestinesi sono stati fatti prigionieri nel corso degli anni 1967-73; 16.312 case sono state distrutte tra il 1967 e il 1971 in virtù del principio altamente biblico della responsabilità collettiva; diversi villaggi, come Latrun, Amwas, Yllo, Beit Nouba e altri, sono stati puramente e semplicemente cancellati dalla carta geografica...
Sulle terre confiscate con questi metodi da gangsterismo organizzato dallo Stato, la colonizzazione ha potuto iniziare nell'ottobre 1967. Nel 1971, si contavano già 52 colonie nei territori recentemente occupati. In seguito, nuove installazioni e nuovi progetti si sono susseguiti. È quasi inutile aggiungere che la popolazione araba è privata, ancor più che in Israele, di ogni possibilità di espressione, di associazione sindacale e politica indipendente. Il minimo sospetto di appartenenza a una organizzazione sovversiva si è già tradotto per migliaia di palestinesi in un totale di diversi secoli di ospitalità (oh, quanto piacevole!) nelle galere sioniste (13).
Non è nostra intenzione ripercorrere tutta la storia di questo “lungo calvario”: gli ultimi quarant’anni, a noi più vicini, non hanno fatto che confermare quelle dinamiche e dunque accrescere il ritmo di espropriazione e di trasformazione dei contadini in proletari. Un nuovo, complesso lavoro di raccolta dati, per i decenni successivi fino a oggi, si potrà sviluppare, se le nostre forze ce lo permettono. Ma intanto ciò basta per mostrare a quali risultati abbia condotto la spogliazione metodica e spietata dei contadini palestinesi, con la loro trasformazione in proletari.
Veniamo all’oggi
Se torniamo per un momento ai dati riportati più sopra, relativi alla Ripartizione della manodopera araba fra i principali settori d'attività (riferita alla popolazione, ancora essenzialmente contadina nel 1948, rimasta in Israele), ci accorgiamo che, mentre la percentuale contadina scende dal 59,9 del 1954 al 19,1 del 1972, nei medesimi anni quella relativa all’industria sale dall’8,2 al 12,5, quella relativa all’edilizia e lavori pubblici dall’8,4 al 26,6 e quella di altri settori dal 23,5 al 41,8. I dati a nostra disposizione si fermano al 1972: ma già così è evidente che siamo in presenza di una proletarizzazione profonda e definitiva, che i decenni successivi (sui quali potremo lavorare per aggiornarne i dati, allargando anche lo studio alla situazione specifica della Striscia di Gaza e della Cisgiordania) potranno solo confermare. La dinamica, infatti, certo non s’inverte: anzi, a partire dallo scoppio della crisi strutturale del capitalismo a metà anni ’70 del ‘900 (che s’è in seguito approfondita e nella quale siamo tuttora immersi con i ben noti effetti disastrosi), si è soltanto intensificata e aggravata.
Veniamo quindi all’oggi, con i dati ufficiali riportati dallo studio di Mantovani.
E partiamo innanzitutto da una considerazione generale: il carattere internazionale del proletariato in tutto il Medio Oriente è un dato acquisito. Limitandoci alle cosiddette petro-monarchie del Golfo, i numeri parlano chiaro: al lavoro in quest’area esplosiva, e in condizioni di acuto sfruttamento, oltre ai proletari locali, vi sono 7 milioni di indiani, 3,3 milioni di bangladesi, 3,2 milioni di pakistani, 1,7 milioni di indonesiani, 1,6 milioni di filippini, 1,3 milioni di nepalesi, 1,1 milioni di srilankesi, 650mila sudanesi, che vanno ad aggiungersi ai proletari egiziani, yemeniti, giordani, libanesi, e a qualcosa come 200-250mila palestinesi. Se poi allarghiamo lo sguardo (sempre ricordando la difficoltà nella raccolta delle cifre), notiamo che i palestinesi nel mondo sono “approssimativamente 14,5 milioni, di cui circa 1,7 milioni in Israele, 5,48 milioni nei ‘Territori occupati’, 6,3 milioni nei paesi arabi, e 750mila nel resto del mondo” (dati del Palestinian Central Bureau of Statistics) – una diaspora impressionante.
Per restare nello Stato d’Israele, la situazione, quanto a composizione internazionale della forza lavoro, è del tutto simile. In particolare, esiste una comunità di cittadini arabo-israeliani pari al 21% della popolazione complessiva (circa 2 milioni – dati del 2019): ma solo il 41% di questa comunità entra nel mercato del lavoro, mentre i tassi di disoccupazione sono i più alti (15% circa), i salari inferiori del 60% rispetto a quelli dei lavoratori ebrei, i lavori sono dequalificati (in particolare nell’edilizia), tra i dipendenti pubblici solo il 5% è costituito da arabi israeliani e la forza-lavoro femminile è occupata solo per il 38% (contro l’82% di quella ebrea). A ciò s’aggiunge il fatto che il legame con la terra, riserva necessaria per far fronte alla miseria costante, è sempre più minacciato dagli espropri e dall’espansione delle colonie ebraiche.
Ci sono poi i lavoratori palestinesi dei “territori occupati”. In Cisgiordania, vivono circa 3.400.000 palestinesi (che vanno ad aggiungersi ai 2.300.000 della Striscia di Gaza). Di questi almeno 2,1 milioni, dunque quasi il 40 % della popolazione, vive di aiuti (secondo altre statistiche fino al doppio). “Nel 2014 circa il 68% dei lavoratori della Cisgiordania era impiegato nel settore privato, il 15.8% in quello pubblico ed il 13.8% in Israele. Al contrario il settore pubblico è il maggior datore di lavoro nella Striscia di Gaza, con il 55% del totale, contro il 39% del settore privato. Nell’insieme dei territori occupati, nel 2022 il tasso di impiego della forza lavoro è stato del 45,0%. [...] Il rapporto occupazione/popolazione ha raggiunto il 34,0%. Il tasso di disoccupazione complessivo si attesta al 24,4%, quello giovanile al 36,1%, quello femminile al 40,4” (Mantovani, cit.).
All’interno di questo quadro, esistono forti disparità di genere ed età: nel 2022, il tasso di attività delle donne era del 18,6% rispetto al 70,7% degli uomini; quello dei giovani (tra i 15 e i 24 anni) era del 30,8% rispetto al 51,% degli adulti (dai 25 anni in su). E, sebbene la legge palestinese sul lavoro (n.7 del 2000) proibisca l’impiego di bambini di età inferiore ai 15 anni, nonché il lavoro pericoloso o con orari prolungati per i giovani tra i 15 e i 17 anni, ci sono poi i lavoratori bambini, tra i 10 e i 14 anni, il cui numero è passato da 6.169 (2021) a 7.321 (2022), mentre il numero dei lavoratori ragazzi (15-17 anni) è passato dai 12.000 circa (2021) a quasi 17.000 (2022). Anche qui, nel campo dell’agricoltura il calo occupazionale è dovuto principalmente all’estensione degli insediamenti ebrei. Va anche rimarcato che solo i lavoratori del settore pubblico (dipendenti pubblici e membri delle forze di sicurezza), vale a dire il 21% di tutti gli occupati palestinesi, beneficiano di una copertura previdenziale (14).
Quanto ai lavoratori di Gaza, prima del macello in corso mentre scriviamo (fine febbraio 2024), la situazione era già la più disastrosa, specie per le donne e i giovani, disoccupati per due terzi. I permessi rilasciati per lavori in Israele e negli insediamenti (solo il 3% dei quali in regola) riguardavano non più del 5% della forza-lavoro dei gazawi. In totale, quasi 200mila lavoratori palestinesi erano impiegati sia in Israele, con salari in media 2,7 volte superiori che nei territori occupati, sia negli insediamenti: qui, per lo più sottopagati e senza regolamentazione, con le donne che svolgono lavori più declassati nell’agricoltura e nel settore domestico, con accuse persistenti di lavoro minorile, salari inferiori al salario minimo e molestie sessuali. Va anche ricordato che gran parte della popolazione di Gaza dipendeva o dai sussidi provenienti dalla United Nations Relief and Work Agency for the Palestine Refugees in the Near West (UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi, creata nel 1949 e costantemente sotto attacco da parte di Israele, oggi ancor più) o dalle istituzioni caritatevoli e assistenziali di Hamas o dall’impiego pubblico a sua volta controllato da Hamas. Domani, che cosa succederà di loro?
Bisogna infine tener presente che esiste, fin dal 1948, una diaspora palestinese all’estero, una componente maggioritaria della quale è formata da proletari – una diaspora, dunque, che è attraversata da linee di classe. A noi non interessa prendere qui in esame la condizione della borghesia palestinese, attiva nei campi della finanza, del commercio e delle costruzioni (sarà interessante farlo, se si riesce a disporre di dati, necessari e non facili da reperire). C’interessa la sorte dei profughi rifugiatisi, per sopravvivere, in Siria, in Libano, in Iraq, e via di seguito: a inizio 2022, quelli registrati presso l’UNRWA erano 5,9 milioni, di cui 2,4 milioni in Giordania, 580.000 in Siria e 487.000 in Libano. Milioni di rifugiati che vanno ad aggiungersi alla “popolazione straniera”, massimamente proletaria, che rappresenta ormai 1/3 della popolazione dell’Arabia Saudita, il 44% di quella dell’Oman, il 55% del Bahrein, il 70% in Kuwait, l’88% in Qatar e negli Emirati Arabi Uniti, “con un record mondiale assoluto nella città di Dubai” (Mantovani, cit.).
Siamo dunque in presenza di un proletariato palestinese, ben presente nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, e disperso più in generale in tutto il Medio Oriente (ma, come abbiamo visto, non solo). Una dispersione di proletari in fuga da miseria, fame, distruzioni, guerre, che – ricordiamolo – ha da sempre accompagnato la storia di sangue e sofferenza propria dello sviluppo capitalistico mondiale. L’attuale macello che si consuma nella Striscia di Gaza non farà che aumentare in maniera drammatica tutte le percentuali su riportate, specie se i sussidi provenienti dall’UNRWA e da altre organizzazioni, e distribuiti a Gaza da Hamas e in Cisgiordania dall’ANP, dovessero cessare o essere drasticamente ridimensionati (15). La distruzione a tappeto effettuata dall’esercito dello Stato d’Israele nella Striscia di Gaza e dintorni (vera e propria terra bruciata, vera e propria pulizia etnica, vero e proprio genocidio) provocherà infatti e sta già provocando un ulteriore esodo di massa. Le distruzioni prodotte, le ferite fisiche e psichiche, la fame e la malnutrizione, la disperazione e la lotta per la sopravvivenza, lo stato di guerra permanente al di là dell’attuale sanguinoso capitolo, saranno fattori tremendi nel terremoto che seguirà nei prossimi anni.
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Da questo quadro, che andrà via via precisato e rafforzato, possiamo trarre alcune considerazioni generali, da ampliare e rafforzare nel corso del tempo.
Innanzitutto, va ribadito che l’identità di classe del proletariato rivoluzionario non è di natura statica, direttamente riferibile all’appartenenza a questa o quella situazione lavorativa o sociale. Al contrario, essa si è costituita in due secoli di tremende lotte politiche ed economiche, attraverso rivoluzioni, guerre e paci infami. E si è consolidata nel patrimonio teorico del marxismo rivoluzionario, dall’elaborazione dei fondatori, passando attraverso gli insegnamenti della scuola bolscevica, fino al lavoro di sistemazione e di difesa operativa e teorica attuato dalla nostra Sinistra Comunista, da allora a oggi. Appartiene a questa consolidata esperienza l’assunto del carattere politico del divenire del proletariato: da dispersa classe in sé a verificata classe per sé. “Il proletariato o è rivoluzionario o non è nulla”.
Noi siamo dunque a fianco del proletariato palestinese, e non del generico “popolo”, e questa nostra posizione discende da un’analisi materialista della situazione medio-orientale, e non da un’astratta aspirazione o da uno pseudo-internazionalismo fatto di slogan romantici e vuoti di contenuto. Il proletariato palestinese esiste, per quanto disperso e purtroppo paralizzato da prospettive nazionalistico-religiose che ne ingabbiano e castrano il potenziale rivoluzionario (come avviene per altro in tutto il Medio-Oriente, Israele incluso) – un potenziale accresciuto dalle tremende sofferenze e dalla conseguente giusta rabbia che caratterizza la condizione proletaria palestinese, attraverso l’arco ormai di quasi ottant’anni. Ma questo enorme potenziale potrà davvero accendersi e diventare realtà solo a contatto con una ripresa effettiva della lotta di classe a livello internazionale (e in primo luogo nell’area euro-americana) e con una presenza attiva e riconosciuta del partito rivoluzionario in essa. Fin dalla metà degli anni ’20 del ‘900, il proletariato medio-orientale e quello palestinese in modo particolare sono stati colpevolmente abbandonati dalle organizzazioni politiche e sindacali che dovevano rappresentarli e guidarli: la controrivoluzione staliniana ha voluto dire il ripiegamento della Russia rivoluzionaria all’interno dei confini (ideologici e politici, prima ancora che geografici) nazionali e il tradimento completo di ogni prospettiva rivoluzionaria mondiale. Quella prospettiva va ripresa e rilanciata, e solo il partito comunista saldamente ancorato a principi, teoria, programma, tattica e organizzazione, e strutturato a livello internazionale, può farlo. Per quella prospettiva, per la sua organizzazione e direzione, noi in quanto partito da sempre lavoriamo, inevitabilmente minoritari e ostinatamente contro-corrente: non aspettando che si verifichi, ma operando, nei limiti delle nostre forze, perché essa si riattivi e strappi così il proletariato palestinese e mondiale dalla tagliola infame dei nazionalismi.
NOTE
1. Il Capitale, Libro 1, cap. XXIV: “La cosiddetta accumulazione originaria” (Par.1: “Il segreto dell'accumulazione primitiva”.
2. Ivi.
3. Cfr. soprattutto Lorand Gaspard, Histoire de la Palestine, Parigi, 1978 р. 140.
3bis. Fonte: A. Granott, The Land System in Palestine, Londra 1952.
4. Cfr. soprattutto Nathan Weinstock, Le sionisme contre Israël, Parigi,1969, pp. 179-180.
5. Il capitale, I, cap. XXIV, par. 2, nota 220.
6. N. Weinstock, op. cit. pag. 392.
7. Sefer Ha-Khukkim (Legislazione speciale), 37, 1950, pag. 86.
8. Per un quadro completo di questa legilazione, cfr. Weinstock, cit., pp.374-399, Gaspard, cit. pp. 187-189, Sabri Geries, Les arabes en Israel, Parigi, 1969, pp. 95-116, e il n. 199 di Problèmes economiques et sociaux del 2-11-1973.
- Dei 475 villaggi arabi che si contavano nella Palestina occupata dagli Israeliani nel 1948, oggi quanti ne restano?
10. Cfr. la rivista Khamsin, n. 2-1975, pp. 79, 41 e 54.
11. Il 29 ottobre 1956, i soldati israeliani entrano nel villaggio di Kfar Kassem per decretare il coprifuoco e annunciano agli abitanti che chiunque sia trovato fuori di casa una mezz'ora dopo sarà fucilato. Poiché molti, a quell'ora, lavoravano ancora nei campi o nei cantieri israeliani, è impossibile avvertirli. Al loro ritorno, vengono arrestati, messi in fila e fucilati. Gli uccisi furono 47. Lo Stato di Israele aprì un'inchiesta ed emise condanne. Ad esempio, il secondo in grado degli ufficiali, riconosciuto colpevole del massacro, venne nominato nel 1960 “responsabile degli affari arabi” nella regione vicina di Ramleh...
12. Così il n. 199 di Problèmes économiques et sociaux.
13. Cfr. L. Gaspard, cit., p. 145, e Le Monde dell'8-6-79 e del 19-6-79.
14. “La Cisgiordania è divisa in tre zone con giurisdizioni diverse: le zone A, B e C, come definito dal nefando accordo di Oslo II. La zona A comprende i centri urbani e copre il 18% della Cisgiordania, ed è l’unica controllata dall’Autorità palestinese. L'area B comprende le piccole città e le aree periurbane [...] è sotto controllo israeliano per la sicurezza e sotto controllo palestinese per l'amministrazione civile. L'area C copre il 61% della Cisgiordania ed è sotto esclusivo controllo israeliano. Essa rimane off-limits per la maggior parte dei palestinesi e, pur costituendo la maggior parte del territorio teoricamente previsto per un futuro fantomatico Stato palestinese, conta più coloni israeliani che palestinesi” (Mantovani, cit.).
15. Bisogna tenere presente che “i rifugiati registrati presso l'UNRWA in Palestina e nella diaspora sono circa 6 milioni, di cui il 39% in Giordania, il 25% nella Striscia di Gaza, il 17% in Cisgiordania, l'11% in Siria, il 9% in Libano. Ben il 64% della popolazione totale della Striscia di Gaza è costituito da rifugiati, contro il 26% in Cisgiordania. Alla fine del 2018 nei territori occupati la percentuale di rifugiati ha raggiunto circa il 41% della popolazione palestinese totale residente” (Mantovani, cit.).