Dopo la decisione del II Congresso dell'Internazionale Comunista a favore delle Tesi che prospettavano l'utilizzazione delle campagne elettorali e del Parlamento ai fini della propaganda e dell'azione rivoluzionaria, la Sinistra che diresse il Partito Comunista d'Italia dalla sua fondazione al 1923 si attenne scrupolosamente nella sua azione pratica alla lettera e allo spirito delle tesi di Lenin-Bucharin-Trotski: anzi, si può dire senza tema di smentita che fu la sola a dare, nella fase di ripiegamento dell'ondata postbellica, gli esempi di parlamentarismo rivoluzionario che Lenin auspicava e che Liebknecht aveva incarnato nella fase ascendente della rivoluzione tedesca. È caratteristica a questo proposito l'azione del Partito nella campagna elettorale del 1921, di cui, come mostra il suo “Manifesto”, la Sinistra seppe fare un grande movimento di propaganda e mobilitazione politica della classe operaia di fronte all'incalzante offensiva fascista.
Nelle stesse circostanze, l'articolo “Elezioni” difendeva la necessità di partecipare alla campagna elettorale, malgrado le profonde convinzioni astensioniste di numerosi proletari, con argomenti che rivestono una particolare importanza. L'articolo ricorda anzitutto come la situazione del 1921, in cui si contavano meno schede elettorali che randellate, fosse di quelle che meglio corrispondevano allo schema tattico leninista del parlamentarismo rivoluzionario e invece si adattavano di meno alla tattica astensionistica della Sinistra, ostile alla partecipazione soprattutto nei paesi e nelle fasi di democrazia borghese e di “libertà costituzionali”. L'esame della situazione 1921 non costituisce però un argomento decisivo a favore della tattica dell'Internazionale. Sempre convinta che le Tesi sul parlamentarismo del II Congresso dovessero essere rivedute, la Sinistra si era tuttavia energicamente pronunciata per la disciplina internazionale e per il centralismo: in quanto Sinistra marxista, essa era prima centralista e solo poi astensionista. Appunto perché la nostra concezione tattica si integrava pienamente nella teoria e nei principi del comunismo, la Sinistra non ricorse mai, per farla valere, al mercanteggiamento di corridoio, alle “situazioni particolari” e, peggio ancora, a quelle “vie nazionali” che servirono di pretesto ai rinnegati per contrabbandare il parlamentarismo più conformista. Nella storia del Partito comunista mondiale, l'astensionismo non doveva entrare dalla porta di servizio, meno che mai per vie traverse, antitetiche alla nostra dottrina.
Nei primi mesi del 1924, il P.C.d'I., ora diretto dal Centro ligio alle direttive “elastiche” del Comintern (1), si presentò alle elezioni come “Blocco di unità proletaria”, nell'illusione di cristallizzare intorno a sé un vasto movimento non tanto e non solo proletario, quanto “popolare”, ma non riuscendo e riunire sotto questa confusa bandiera che lo sparuto gruppo dei “terzinternazionalisti”. Ora, come risulta dall'articolo del 28 febbraio (“Nostalgie astensioniste”, Stato Operaio, n.5 del 22-02-1924), le elezioni, destinate a legittimare il regime fascista, provocarono una prima levata di scudi a favore dell'astensione – levata di scudi derivante non dalle nostre ragioni di stretta ortodossia marxista, ma da pregiudizi costituzionali borghesi, dallo sdegno per l'“illegalità”, le “frodi”, le “pastette” e le violenze che caratterizzavano la campagna elettorale.
Toccò alla Sinistra difendere la partecipazione alle elezioni non solo in nome della disciplina verso l'Internazionale, ma per reagire ai primi sintomi di nostalgie democratiche, costituzionali e legalitarie serpeggianti nelle nostre file. Una volta sancito internazionalmente il criterio del parlamentarismo rivoluzionario, bisognava praticarlo a fondo e sulle sue vere basi: non trincerarsi dietro l'”incostituzionalità” o i rischi di una particolare campagna per disertarla, giustificandosi per di più con un astensionismo dettato da reazioni “morali” o da scrupoli di... correttezza democratica. (2).
L'allarme era più che giustificato. Quando, in giugno, scoppiò la “crisi Matteotti”, la direzione centrista del P.C.d'I. seguì le opposizioni democratico-borghesi (socialisti inclusi) nel fare della turpe vicenda una “questione morale”: uscì dal Parlamento, scambiò l'Aventinismo per il “cardine del movimento popolare antifascista” e, anche dopo il tentativo fallito di sciopero generale e di fronte unico con i socialisti, insistette nell'offerta di un'azione comune ai partiti e gruppi aventiniani, spingendola fino alla proposta – di schietta marca democratica – di costituirsi in “Anti-parlamento” (altro che “distruggere il parlamento dall'esterno”! si sarebbe tenuto a battesimo un altro, un più “onesto”, un più “legale”, un “miglior” Montecitorio...): insomma, passò dall'estremo di un astensionismo parlamentare di ispirazione filo-democratica all'estremo opposto di un eccesso di zelo parlamentare di ispirazione ultra-democratica.
Ancora una volta, fu la Sinistra a reagire vigorosamente: se mai v'era situazione in cui aveva un senso il parlamentarismo rivoluzionario, cioè la tattica di servirsi della tribuna parlamentare per denunciare sia il parlamentarismo che la collaborazione fascismo-democrazia nel difendere le basi della società borghese, era proprio quella. Si era andati in parlamento? Bisognava restarci a rischio di farsi manganellare, smascherando a un tempo il “governo degli assassini” e i suoi codardi “oppositori” dell'ultima ora; si era voluta adottare la tattica del parlamentarismo rivoluzionario? che almeno lo si praticasse coraggiosamente, invece di ricadere in una nuova e codarda versione del parlamentarismo riformista. Bisognava seguire fino in fondo la propria strada indipendente, mobilitando intorno a parole d'ordine rivoluzionarie le masse, più che mai disposte a battersi nelle città e nelle campagne, e a questo scopo non lasciandosi sfuggire l'occasione unica anche se sussidiaria di utilizzare i megafoni della tribuna parlamentare, disertata da tutti, per ribadire il concetto che la vera soluzione alla crisi andava cercata non lì dentro, ma nelle piazze. Solo il rifiuto categorico delle “opposizioni” di aderire alle iniziative pur democraticheggianti del P.C.d'I., convinse la direzione gramsciana ad accettare la tesi della Sinistra rientrando a Montecitorio. E non è un caso che, a tenere alla Camera, il 12 novembre 1924, l'audace discorso del “rientro” (vedi a fianco), fra urla di minaccia e pugni levati, fosse proprio un esponente della Sinistra, un componente del vecchio Esecutivo deposto nel 1923: Luigi Repossi; così come non è un caso che il primo discorso nella nuova legislatura sia stato tenuto a nome del Partito, il 14 gennaio 1925, da un altro “astensionista” (non ancora capitolato di fronte a Mosca), Ruggero Grieco, non tanto per svolgere la critica della nuova legge elettorale, quanto per riaffermare i principi comunisti della lotta di classe, della conquista violenta del potere e della dittatura proletaria.
L'ultima battaglia della Sinistra marxista sulla questione parlamentare non fu soltanto un estremo esempio di parlamentarismo rivoluzionario come l'aveva inteso e preconizzato Lenin. Difendendo il parlamentarismo rivoluzionario contro la ricaduta nel parlamentarismo tout court, la Sinistra seppe allora difendere nello stesso tempo il suo tipico astensionismo contro l'“astensionismo contingente” dei democratici antifascisti, pronti a far la spola fra Parlamento e “Anti-parlamento” al solo fine della conservazione dell'ordine borghese. Dopo la prova dei fronti popolari e dei blocchi di resistenza partigiana, in cui l'antifascismo è poi riuscito a trascinare il proletariato distruggendo i cardini stessi del programma comunista, è un astensionismo integrale e definitivo quello che la Sinistra trasmette alle future generazioni rivoluzionarie.
Eccone il bilancio che la Sinistra ne trasse, come riportato dalle nostre “Tesi di Lione”(1926):
“La partecipazione alle elezioni del 1924 fu atto politico felicissimo, ma non così può dirsi della proposta dell'azione comune fatta dapprima ai partiti socialisti e della etichetta assunta di ‘Unità Proletaria’, come fu deplorevole la tolleranza eccessiva di certe manovre elettorali dei terzini [i terzinternazionalisti, entrati nel Partito nel 1924 – NdR]. Più gravi problemi si posero a proposito della crisi manifestatasi con l'eccidio di Matteotti. La politica della Centrale poggiò sull'assurda interpretazione che l'indebolimento del fascismo avrebbe messo in moto prima le classi medie e dopo il proletariato. Ciò significa da una parte sfiducia nella capacità classista del proletariato, rimasta vigile anche sotto la soffocazione dell'armatura fascista, e dall'altra sopravvalutazione dell'iniziativa delle classi medie. Invece, a parte la chiarezza delle posizioni teoriche marxiste al riguardo, l'insegnamento centrale dell'esperienza italiana è quello che dimostra come i ceti intermedi si lascino spostare e si accodino passivamente al più forte: nel 1919-20 al proletariato; nel 1921-22-23 al fascismo; dopo un periodo di emozione chiassosa ed impotente nel 1924-25, oggi nuovamente al fascismo. La Centrale errò nell'abbandono del parlamento e nella partecipazione alle prime riunioni dell'Aventino, mentre avrebbe dovuto restare in parlamento con una dichiarazione di attacco politico al governo e una presa di posizione immediata anche contro la pregiudiziale costituzionale e morale che rappresentò il determinante effettivo dell'esito della crisi a favore del fascismo. Non è da escludersi che ai comunisti sarebbe potuto convenire di abbandonare il parlamento, ma con fisionomia propria e solo quando la situazione avesse permesso l'appello all'azione diretta delle masse. Il momento era di quelli in cui si decidono gli sviluppi delle situazioni ulteriori; l'errore fu quindi fondamentale e decisivo agli effetti di un giudizio sulle capacità di un gruppo dirigente, e determinò un'utilizzazione sfavorevolissima da parte della classe operaia prima dell'indebolimento del fascismo e poi del clamoroso fallimento dell'Aventino.
“La rientrata nel parlamento nel novembre 1924 e la dichiarazione di Repossi furono benefiche come lo dimostrò l'ondata di consenso proletario, ma troppo tardive. La Centrale oscillò lungamente e si decise solo per la pressione del partito e della Sinistra. La preparazione del Partito fu fatta sulla base di istruzioni incolori e di un apprezzamento fantasticamente erroneo sulle prospettive della situazione (relazione Gramsci al Comitato Centrale, agosto 1924). La preparazione delle masse, indirizzata non alla visione del crollo dell'Aventino, ma a quella della sua vittoria, fu ad ogni effetto la peggiore attraverso la proposta del partito alle opposizioni di costituirsi in Anti-parlamento. Questa tattica, anzitutto, esulava dalle decisioni dell'Internazionale, che mai contemplarono proposte a partiti nettamente borghesi; di più, essa era di quelle che portano fuori dal campo dei principi e della politica comunista, come da quello della concezione storica marxista. Indipendentemente da ogni spiegazione che la Centrale poteva tentare di dare ai suoi fini e sulle intenzioni che ispiravano la proposta, spiegazione che avrebbe sempre avuto limitatissima ripercussione, è certo che questa presentava alle masse l'illusione di un Anti-Stato opposto e guerreggiante contro l'apparato di stato tradizionale, mentre, secondo le prospettive storiche del nostro programma, sola base di un Antistato potrà essere la rappresentanza della sola classe produttrice, ossia il Soviet.
“La parola dell'Anti-parlamento, poggiante nel paese sui comitati operai e contadini, significava affidare lo stato maggiore del proletariato ad esponenti di gruppi sociali capitalistici, come Amendola, Agnelli, Albertini, ecc. Al di fuori della certezza di non arrivare a tale situazione di fatto, che si potrebbe chiamare solo col nome di tradimento, il solo presentarla come prospettiva di una proposta comunista significa violazione dei principi comunisti” (3).
NOTE
- La direzione di sinistra del P.C.d'I., uscita dai congressi di Livorno (1921) e di Roma (1922), venne sostituita provvisoriamente in seguito all'arresto dei principali dirigenti nel febbraio 1923, e definitivamente dopo l'assoluzione di questi ultimi al processo nell'ottobre dello stesso anno; dopo le prime resistenze (da parte di Terracini soprattutto, ma anche di Togliatti), la nuova direzione di “Centro” si allineò gradualmente alle posizioni dell'Internazionale, ma ancora alla Conferenza nazionale di Como (maggio 1924) risultava in minoranza rispetto al grosso del partito, quasi unanimemente schierato sulle posizioni originarie. Pur in tale condizione, come al successivo V congresso dell'Internazionale Comunista, la Sinistra non solo non rivendicò il proprio ritorno alla direzione del Partito, ma sostenne che una simile possibilità era condizionata ad una decisa e non equivoca svolta nella politica di Mosca: “Ove l'indirizzo dell'Internazionale e del Partito – si legge nello schema di Tesi presentato alla suddetta Conferenza dalla Sinistra – dovesse restare opposto a quello qui tracciato, o anche indeterminato e imprecisato come fino adesso, alla Sinistra italiana si impone un compito di critica e di controllo, e il rifiuto fermo e sereno a soluzioni posticce raggiunte con liste di comitati dirigenti e formule svariate di concessioni e compromessi, quali sono il più delle volte i paludamenti demagogici della tanto esaltata e abusata parola di unità”. Coerentemente, al V Congresso, Bordiga rifiutò non soltanto l'offerta della vicepresidenza dell'Internazionale, fattagli da Zinoviev, ma ogni corresponsabilità nella direzione del P.C.d'I., mentre la Centrale italiana si orientava sempre più nel senso voluto da Mosca e patrocinato qui da noi dalla corrente di destra Tasca-Graziadei.
- “Mi preoccupa solo, attraverso le manifestazioni di alcuni compagni per una tesi contingente di astensione – non certo per un'attitudine pratica di astensionismo dalla lotta dei partiti – il fatto che queste nostalgie, più che riportarsi alle ragioni rivoluzionarie da noi altra volta accampate per la tesi astensionista, si riportano evidentemente ad apprezzamenti, a stati d'animo, a premesse ideologiche, che sanno ben poco di comunismo; e sarebbe questo un inconveniente non minore della formale indisciplina.
“Chi vuole essere sincero deve riconoscere che il ragionamento che sbocca nella conclusione: ‘avremmo fatto meglio ad astenerci’, non può essere che questo: non andiamo alle elezioni perché non si fanno in piena libertà, non tradurranno nei loro risultati la espressione legittima della volontà degli elettori, non ci daranno la soddisfazione di raggiungere cifre confortanti di voti e di eletti; ed anche: se ci astenessimo, faremmo un dispetto al fascismo svalutandolo all'estero. [...]
“Non è da comunisti lasciare intendere che in regime di democrazia e di libertà le elezioni traducono la effettiva volontà delle masse. Tutta la nostra dottrina si leva contro questa colossale menzogna borghese, tutta la nostra battaglia è contro i fautori di essa, negatori del metodo rivoluzionario di azione proletaria. Il meccanismo liberale di elezione non è fatto che per dare una necessaria e costante risposta: regime borghese, regime borghese... [...]
“Ogni buon comunista non ha oggi altro dovere che combattere con questi argomenti classisti la tendenza di molti proletari alla astensione, derivato erroneo della loro avversione al fascismo. Facendo questo svolgeremmo della magnifica propaganda e aiuteremo il formarsi di una coscienza recisamente rivoluzionaria, che servirà quando sarà venuto, segnato dalle situazioni reali e non dal solo nostro desiderio, il momento di boicottare, per abbatterla, la baracca oscena del parlamento borghese.” (da “Nostalgie astensioniste”, in Stato operaio, n.5 del 28/2/1924; ora in O preparazione rivoluzionaria o preparazione elettorale, di prossima ripubblicazione).
3. Dal “Progetto di tesi per il III congresso del Partito Comunista, presentato dalla Sinistra (Tesi di Lione)”, III-6, Ora in In difesa della continuità del programma comunista, Edizioni il programma comunista, 1989, pp.118-119.