Con effetto domino, la protesta degli universitari USA contro la guerra scatenata dallo Stato d’Israele nella Striscia di Gaza, un vero e proprio macello al limite del genocidio e di una autentica pulizia etnica della popolazione civile palestinese e soprattutto dei proletari e delle masse proletarizzate, è dilagata qua e là anche in Europa e altrove. Non staremo a farne qui la cronaca, visto che da settimane (scriviamo a metà maggio) ne sono pieni tutti gli organi di “informazione”. Vogliamo invece indicare alcuni punti vitali, perché le reazioni istintive a quest’ennesimo sintomo della sanguinaria agonia del modo di produzione capitalistico non passino senza lasciare traccia.
Potremmo cavarcela con un “Benvenuto un ritorno dei ‘giovani’ alla politica attiva”; oppure esercitarci a discettare se si tratti o no di un “nuovo ’68”, come fanno in molti, senza senso né costrutto. Non lo facciamo e partiamo invece da una considerazione generale.
La situazione sociale negli Stati Uniti è molto meno rosea di quello che parrebbe o si vorrebbe far credere. Negli ultimi anni, abbiamo assistito a un susseguirsi di agitazioni in settori diversi, dai lavoratori della logistica e del commercio agli insegnanti e ad altre categorie, fino ai recenti grossi scioperi nell’industria automobilistica. Indipendentemente dai loro risultati, queste lotte non potevano non avere effetti sociali diffusi, e di conseguenza influenzare anche gli stati d’animo di chi vive e studia in quelle “torri d’avorio” che sono le università USA, private o pubbliche, dove, in attesa d’essere scaricati fra le onde tumultuose di un mondo del lavoro in evidente affanno, galleggiano i figli di una classe media e di un’aristocrazia operaia incalzate dalla crisi (è ben noto che le rette universitarie inghiottono buona parte del reddito di questi strati, ansiosi di confermare o raggiungere un certo status investendo nel... “futuro dei nostri figli”). La composizione sociale dei giovani scesi in protesta ha avuto dunque il suo peso: le sempre più acute contraddizioni del modo di produzione capitalistico si riverberano le une sulle altre, gonfiandosi di continuo. E quello che sta succedendo a Gaza contribuisce in maniera drammatica, facendo sentire l’urgenza di una presa di posizione.
Detto questo, mettiamo a fuoco quelli che sono i limiti di questo movimento di protesta. Il suo carattere etico, morale, umanitario, è evidente: non si può restare indifferenti di fronte a questi massacri, alla ferocia e all’arroganza dello Stato d’Israele (a scanso di equivoci e di malevole manipolazioni, ribadiamo e sottolineiamo: Stato d’Israele), ulteriore manifestazione della distruttività cinica e spietata di cui è capace l’imperialismo – ogni Stato imperialista. Fin qui, una sana reazione, che però si dibatte dentro una gabbia di contraddizioni.
Non si tratta infatti soltanto dell’insufficienza di una protesta che resta di stampo etico, morale, umanitario, suscitata dall’ennesimo sanguinario scatenamento militare. C’è anche, comune a tutte le reazioni sviluppatesi in questi ultimi mesi, negli USA come in Europa, l’ostinata chiusura dentro l’orizzonte pernicioso di una visione nazionale e nazionalista del problema. “Free Palestine” piuttosto che “Due popoli, due Stati” o “Dal fiume al mare” sono gli slogan dominanti tanto quanto lo sono le bandiere nazionali sventolate in tutte le manifestazioni. Tuttavia, la rivendicazione nazionale (e lasciamo stare, perché ce ne siamo abbondantemente occupati, quanto sia fuori tempo e fuori luogo, amplificata com’è da tutti i megafoni, questa rivendicazione) non solo non porta da nessuna parte, ma, nell’evitare di affrontare il problema alla radice, taglia le gambe alla protesta stessa.
È la prospettiva di classe che manca: ci si vuol schierare, con una buona dose di senso di colpa, a fianco di un “popolo” (concetto squisitamente inter-classista), invece di farlo a fianco di un proletariato che è il vero oppresso e massacrato, da ben più di settant’anni e in tutto il Medio Oriente (e in tutto il mondo! ma per il momento, limitiamoci a quest’area e a quest’ultimo dopoguerra). Manca cioè l’affermazione chiara e netta, di lotta e di battaglia, che “il proletariato non ha patria, non ha nazione”: chiunque insista invece nel chiuderlo dentro a queste gabbie, a scioglierlo nel popolo, che lo faccia senza rendersene conto o meno non importa, fa solo opera controrivoluzionaria.
Questa chiusura si manifesta anche in altri modi. Per esempio, nella frammentazione e nell’isolamento di una protesta che non esce dai recinti generazionali, dall’ambito da cui nasce (l’università), dalla mobilitazione su aspetti specifici (i legami economici fra ricerca universitaria e interessi dello Stato d’Israele)... Non c’è una visione politica più ampia, per l’appunto di classe, in grado di coinvolgere altri strati sociali sempre più colpiti dalla crisi avanzante: la classe lavoratrice, i giovani proletari o semi-proletari dei ghetti... Certo, movimenti come Black Lives Matter hanno dato il loro appoggio alla protesta studentesca: ma, come abbiamo documentato all’epoca dell’assassinio di George Floyd per mano degli sbirri USA (1), anche in questo caso si tratta di un movimento a base piccolo-borghese e a orientamento fortemente riformista e dunque incapace di volgersi verso un’autentica critica (operativa, organizzata, militante) al capitalismo come struttura economico-sociale-culturale che va abbattuta, evitando e combattendo l’illusione di poterla rabberciare. Torna in realtà, anche in questa protesta dilagante, l’attitudine empirica e pragmatica tipica di una visione miope del “fare politica”, che concepisce i movimenti di protesta come pura sommatoria di “bisogni”, di “problematiche” da affrontare e (pensare di) risolvere a una a una. Dichiarava significativamente uno dei rappresentanti del movimento degli studenti dell’università di Berkeley, negli anni ’60 del ‘900: “Prendiamo posizione su un certo problema: diciamo i diritti civili. Poi abbiamo una posizione su un altro problema: diciamo il Vietnam, e così via. Vorrei definire il radicalismo come la somma di queste posizioni...”. Troppo poco e molto male: perché la mancanza di una visione politica globale, di una vera strategia rivoluzionaria, non può che svuotare di reale incisività la protesta stessa.
Questa miopia e impotenza si riflette poi in altri aspetti. In primo luogo, nell’incomprensione della reale natura dello Stato borghese, cui si finisce in ultima analisi per demandare la soluzione dei “problemi” e a cui, in particolare, si fa appello anche quando esso si mostra nella sua vera veste, sempre più dominante ed esplicita: quella di braccio armato e repressivo del Capitale; e nell’incomprensione della reale natura della democrazia nella fase imperialista, vale a dire del metodo di governo che si alterna a quello fascista integrandolo, ed ereditandone via via gli aspetti sostanziali anche se non formali. Non basta inventarsi, come fanno molti “filosofi” all’ultima moda, il termine di “democratura”: bisogna poi sapere di che cosa si parla! (2)
Infine. L’avvicinarsi delle elezioni, negli USA come altrove, diventa un potente strumento di manipolazione della protesta stessa, nell’alternarsi di repressione dura e pura e di mielate offerte di composizione del conflitto. Proprio per la fragilità (politica, se non numerica) della protesta, il mondo politico istituzionale si rapporta a essa con l’unica preoccupazione di perdere o guadagnare voti: si apre e si chiude il rubinetto repressivo, si strizza o meno l’occhio offrendo o negando, in base a calcoli puramente elettorali. E la tanto chiacchierata “sinistra democratica”, i tanto osannati Sanders e Ocasio-Cortez, che fanno? Ricorrono preoccupati all’usuale retorica del generico appoggio a parole, con l’obiettivo però di ricondurre la protesta a miti consigli, e ben dentro le istituzioni di cui fanno parte integrante: così, il primo se l’è cavata con un “Restate pacifici e focalizzati. Siete dalla parte giusta della storia” (ANSA, 4/5/2024), la seconda s’è limitata a discettare su che cosa voglia dire “genocidio” (https://www.youtube.com/watch?v=jZdrZ-uiIT0). No comment!
Per i giovani che provano davvero indignazione e rabbia per il moltiplicarsi di eventi sanguinosi come la pulizia etnica in corso a Gaza, la guerra in Ucraina, le molte altre guerre e guerricciole in giro per il mondo – tutti eventi che avvicinano lo scenario di una nuova guerra mondiale – c’è invece un'unica prospettiva, per quanto lontana e difficile possa sembrare: quella di schierarsi con vigore e determinazione su un fronte di classe e non di generazione; di dare corpo e voce a un internazionalismo che non sia “sommatoria di popoli o federazione di nazioni”, bensì unione di lotta della nostra classe dentro e contro tutte le patrie; di operare per l'unificazione delle lotte in un programma non solo economico e sociale ma politico contro lo Stato e il suo inganno democratico. E di imboccare la via dell'organizzazione in partito rivoluzionario.
NOTE
- Su Black Lives Matter e questioni collegate, rimandiamo al lungo articolo “USA: Razzismo, lotte di classe e necessità del partito rivoluzionario”, il programma comunista, n.5-6, ottobre-dicembre 2020.
- Su questi temi, rimandiamo a nostri testi fondamentali come “Il principio democratico” (1922) e “Forza violenza dittatura nella lotta di classe” (1946-1948), ripubblicati nel nostro testo Partito e classe, edizioni il programma comunista, Milano 1991.