In Italia come altrove, il proletariato, attonito e drogato da mille illusioni riformiste, oggi subisce ancora la violenza esercitata dall’impersonale classe dominante attraverso il suo Stato. Ma il peggioramento continuo e generalizzato delle condizioni sociali di vita e di lavoro lo spingerà sempre più a reagire. Le lotte, suscitate, nel modo di produzione capitalistico come in ogni altra società di classe, dalla contraddizione tra le forze produttive e le forme in cui sono imprigionate, possono partire (e partiranno) da necessità pratiche molto importanti e concrete: la miseria crescente, il degrado dei quartieri popolari o la loro “gentrificazione” che distrugge i rapporti sociali, le condizioni disumane in cui vengono detenuti i prigionieri, la distruzione e la dissipazione delle risorse naturali, i tempi e i ritmi di lavoro che uccidono e fanno ammalare... fino alle missioni militari e alle guerre.
Nel decennio che va dal 2010 al 2020, è stato grazie al coraggio e alla generosità dei lavoratori immigrati impiegati nella logistica che, un po’ ovunque in Italia, si è avuto un importante ciclo di combattivi conflitti operai: ne sono stati loro i protagonisti, proprio perché senza riserve – non il generico “cittadino” italiano, che si trova ancora in una posizione di privilegio potendo contare su alcune riserve e nutre il terrore di perderle e di finire nelle condizioni del proletariato del resto del mondo! Ma l’avanzare della crisi erode anche quelle riserve e lo costringerà prima o poi a scendere in campo al loro fianco, mettendo in discussione la sua fiducia nella legalità e nello Stato democratico.
L’auspicato, da più parti, “risveglio delle coscienze” (le scintille di percezione della necessità di uno scontro più ampio con la società del capitale e del profitto) sarà infatti un risultato della lotta, un riflesso della forza che si riuscirà ad esprimere, oltre che, naturalmente, dell’intervento in esse del partito rivoluzionario.
Suonerà questa sveglia quando non solo rifioriranno e s’intensificheranno le lotte sociali, economiche e sindacali, ma lo farannoesplodendo con scioperi e mobilitazioni sociali e territoriali che fermeranno la produzione e il mercato, usando e applicando la forza proletaria organizzata, a partire dai picchetti, dalle spazzolate contro i crumiri, dal blocco di ogni movimentazione di materie prime, semilavorati, prodotti, per arrivare all'organizzazione collettiva di espropri e di casse di resistenza.
È proprio di questa prospettiva che hanno paura la borghesia e il suo Stato: paura di una lotta di classe portata fino in fondo – di una lotta di classe che nasce e supera il rapporto immediato e limitato di un sindacalismo anche combattivo, ma pur sempre compatibile con le forme e le norme dell'economia vigente, di una lotta di classe che, con il contributo decisivo del partito rivoluzionario, riesca a darsi obiettivi politici non riformisti ma anti-istituzionali, extraparlamentari e antiparlamentari.
È di questo che hanno paura. Ed è a questo scontro che si preparano, con leggi sempre più repressive che colpiscono per primi i meno integrati e i più marginali e tutti coloro che non si adeguano all'ordine e agli ordini: leggi che, in questa logica, dovrebbero funzionare come uno psicofarmaco sociale.
Da parte loro, sindacati di regime e partiti di finta sinistra si appellano alla legalità e così dividono e disorientano i lavoratori. Per questo, i pochi esempi di vere lotte, quelle combattive e che colpiscono il profitto, sono state quotidianamente represse dall'opera dello Stato: dalla sua “magistratura” e dalle sue “forze dell'ordine” fino ai suoi mezzi di disinformazione, tutti hanno fatto ricorso alle pratiche più vomitevoli pur di calunniare, intimidire, reprimere – comprese le squadracce fasciste contro i picchetti e i camion che hanno investito e ucciso... Si contano a centinaia le cariche, gli arresti, i fogli di via, i processi. Queste lotte, condotte in prima linea dai lavoratori immigrati impiegati nella logistica, sono state un vero insegnamento per il proletariato occidentale, che, in larga misura, paralizzato dall'illusione riformista, subisce ancora senza reagire i colpi della crisi economica e l'attacco di Stato e padronato.
“Criminalizzare le lotte e chi le sostiene”: questa è stata, è e sarà dunque la parola d'ordine della classe dominante, dei padroni, di qualunque colore sia il governo che li rappresenta. Ogni governo infatti non è e non può essere altro che il comitato d'affari di quel capitalista collettivo che si chiama Stato, nominato dalla sua assemblea degli azionisti riuniti in Parlamento. Così, poiché non si è potuto (per il momento!) rendere illegale lo sciopero, si attacca il picchetto che dello sciopero è strumento e parte integrante, e che con gli ultimi decreti si vuol rendere illegale, trasformandolo in reato.
Mettiamoci in testa che la difesa del modo di produzione capitalistico, il manganello e i lacrimogeni delle “forze dell'ordine”, i codici dei magistrati e le mediazioni in prefettura sono una necessità irrinunciabile per lo Stato. Tutta la società del Capitale è un'unica, ininterrotta, violenza nei confronti dei proletari, occupati, disoccupati, inoccupabili, femmine, maschi, giovani, confinati nel lavoro domestico e di cura...! E ciò è tanto più efficace in quanto avviene “in nome della democrazia”...
Il carcere e i centri di detenzione amministrativa sono l'esempio e l'incarnazione del monopolio della violenza: vi finiscono sia i prigionieri “sociali” (quelli che devono essere normalizzati a una rassegnata vita di lavoro, consumo e consenso) sia i prigionieri “politici” (quelli che hanno agito con più consapevolezza contro le norme, le leggi, i simboli dello Stato borghese, anche se con una modalità e una prospettiva diverse da quelle per cui lavoriamo noi). Non si tratta di rendere buono lo Stato, ma di prepararsi ad abbatterlo!
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L'ultimo disegno di legge (il cosiddetto Decreto Piantedosi, dal nome del Ministro degli Interni) non è una novità (e non è nemmeno una particolarità italiana). Con la critica e con la lotta, noi comunisti abbiamo sempre denunciato la democrazia come un inganno che nasconde la violenza della classe dei padroni, sempre pronta a intervenire se lo schiavo salariato osa ribellarsi. Ma la democrazia è ormai solo una maschera con cui si vorrebbe nascondere il fascismo intrinseco della società del capitale: è una necessità di governo, propria della fase imperialista in cui abbiamo la disgrazia di sopravvivere, in tutto il mondo.
Secondo alcuni “sinceri democratici”, quest'ultimo Decreto sarebbe “liberticida”, da “Stato di polizia”, tale da portare “all’eliminazione di qualsiasi forma di dissenso e partecipazione”. Occorre quindi ricordare che cos’è la libertà e che cos’è lo Stato.
Che senso ha parlare di libertà se, qui da noi come dovunque, la società è drammaticamente divisa tra possessori della ricchezza e dei mezzi di produzione e masse sempre più impoverite, sfruttate e sfruttabili?
Migliaia di morti sul lavoro, decine di migliaia di feriti anche gravi e spesso con conseguenze permanenti, ambienti malsani, ritmi e carichi di lavoro inumani, stipendi da fame, precarietà, indigenza, emarginazione… E sempre più guerre con le loro mattanze di proletari! Per la classe borghese, questa non è violenza, non è sofferenza patita ogni giorno da milioni di proletari, in ogni angolo del mondo!
Per noi e per la nostra classe, invece, questa è violenza: è violenza di classe, violenza borghese, che non ha nessuna pietà per le sorti del suo schiavo salariato e del mondo in cui viviamo.
Occorre quindi prendere atto che lo Stato non può essere altro che lo strumento della classe dominante per mantenere il proprio dominio, la ”pace sociale”. La libertà è solo la libertà di fare i suoi affari, attraverso il monopolio della forza e della violenza. Tutto questo non è una novità per noi rivoluzionari, che siamo stati sempre a fianco e protagonisti delle lotte proletarie.
In questi ultimi anni, in applicazione delle leggi democratiche dello Stato, sono fioccate denunce e procedimenti penali: nei casi che ci riguardano, ruotano intorno ai reati di violenza privata, blocco stradale, interruzione di pubblico servizio. Reati fantastici, tramandati di codice in codice: da quelli già in vigore nel Regno d’Italia al fascistissimo Codice Rocco (passato pressoché tale e quale nella “Repubblica dalla Costituzione più democratica del mondo”), a cui si è affiancata nel 1975 la Legge Reale, per finire con i più recenti e pletorici Decreti Sicurezza che hanno istituito il reato di “terrorismo”: tutto ciò, mentre l’italicaRepubblica, quanto mai vassalla dell'Imperium della Repubblica degli Stati Uniti d'America, si è resa protagonista delle “missioni militari di pace” nell'Europa balcanica, nel Caucaso e in tutto il Medio Oriente (senza dimenticare l'uso sociale della “pandemia”).
Ma, storicamente, la messa fuori legge del dissenso e della protesta non ha fermato la necessità di lottare. Nell’Ottocento, perfino i sindacati dei lavoratori erano proibiti: eppure, la necessità di difendersi e di rispondere colpo su colpo ha spinto i lavoratori a organizzarsi anche contro la legge (per rimanere nella provincia italica, quella stessa legge che prese a cannonate prima il movimento dei Fasci Siciliani e immediatamente dopo quello milanese). Di recente, nonostante leggi ultra-repressive, decine di rivolte hanno visto scendere in piazza migliaia e migliaia di proletari e senza riserve: tutto il Nord Africa e il Medio Oriente delle cosiddette “Primavere arabe”, in tutto il Sud America tra il 2018 e il 2020, con le recenti rivolte in Kenya e Bangladesh, senza trascurare la coraggiosa lotta delle giovani proletarie iraniane... E anche in paesi privilegiati come la Francia e gli USA i proletari hanno fatto sentire la propria voce.
Per quanto si sforzino, la repressione e le violenze dello Stato non possono fermare un movimento che è spinto dalle stesse contraddizioni che il sistema del profitto crea e non riesce a risolvere. Non esiste un capitalismo buono e democratico, soprattutto in questa fase imperialista in cui siamo immersi da più di un secolo, caratterizzata dai monopoli dei colossi finanziari e dall’utilizzo della violenza a difesa dei capitali.
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Chi oggi, di fronte al continuo inasprimento della repressione, chiede il ritorno alla legalità e alla democrazia, chi sogna uno Stato buon padre o buona madre, neutrale, espressione della volontà e della mediazione popolare, chi sogna e si accontenta di una “democrazia conflittuale”, chi si dimentica di Brescia, di Piazza Fontana, di Bologna e dell'Italicus, chi si è dimenticato di Avola, Battipaglia, della Torino dei “teppisti della classe operaia” e chi si dimentica che Genova 2001 non ha avuto bisogno di “Decreti sicurezza”, è, volente o nolente, un difensore del sistema vigente e, invece di lavorare per organizzare il proletariato e aiutarlo a difendersi dalla violenza dello Stato, lo disarma e lo consegna inerme ai suoi aguzzini.
Ripetiamo, quest’ultimo Decreto non è una novità e per noi non è nemmeno una sorpresa. È questa combattività, in atto da parte del proletariato immigrato e potenziale da parte del proletariato tutto che si accorgerà di non aver mai avuto riserve, a spaventare la borghesia e il suo Stato e quindi a riflettersi nelle norme repressive.
Noi comunisti salutiamo invece con entusiasmo tutti gli esempi di combattività proletaria, di disobbedienza e di dissenso sociale, così come abbiamo sostenuto la coraggiosa lotta di Alfredo Cospito contro la tortura del 41bis e le prime, seppur timide e “partigiane”, azioni antibelliciste.
La nostra risposta alla repressione attuata dagli Stati borghesi passa e passerà necessariamente da un’azione collettiva: sarà una risposta dura, coraggiosa e necessaria alla violenza legalizzata della borghesia e del suo Stato.
Non ci stanchiamo di ripeterlo: il fascismo c'è già – si chiama per l'appunto democrazia. Nostro compito è combatterlo in tutte le sue forme e vesti. Noi comunisti internazionalisti e rivoluzionari continueremo a stare dalla parte del proletariato, con e nella nostra classe, con e nelle sue lotte, ben consci che questo ha un prezzo. Continueremo a lanciare e praticare parole d’ordine che chiamano alla lotta, alla solidarietà fra lavoratori, alla difesa intransigente delle nostre condizioni di vita e di lavoro, dentro e contro ogni frontiera, anche se questo significherà essere fuori legge. Operiamo e opereremo sempre perché si superino tutti gli steccati, le divisioni, le false contrapposizioni che la borghesia e i suoi servi utilizzano per paralizzare e separare i proletari. Ci opporremo alle guerre del capitale come abbiamo sempre fatto, con il disfattismo e con la fraternizzazione, contro ogni Stato, ogni Patria e tutte le nazioni borghesi, a partire da quella in cui viviamo .
Di fronte al macello dei proletari chiamati alla guerra dai loro governanti, per farsi assassini e sicari, oggi in Russia come in Palestina, in Israele come in Ucraina, in USA come in Italia e in ogni dove, difenderemo, propugneremo, lavoreremo per difendere e contrapporre all'interclassista, reazionaria e retrograda, identità e unità dei “popoli” la realtà e la necessità dell'identità di classe rivoluzionaria, proletaria, internazionale e internazionalista.
La nostra classe, il proletariato che parla tutte le lingue del mondo, se non è rivoluzionaria, se non segue e propugna un suo programma politico indipendente, internazionale e antinazionale, incarnato nel partito rivoluzionario, è destinata a rimanere un animale da reddito nelle mani dei suoi padroni, sacrificabile in nome di una qualsiasi divinità, sull'altare di una qualsiasi Patria.
Non si può reagire alla violenza dello Stato borghese porgendo l’altra guancia: lo si deve fare preparandosi a opporvi la violenza del proletariato organizzato, per giungere infine ad abbatterlo. Solo allora, liberandoci non senza fatica delle sue macerie, potrà sorgere la società comunista – l’unica possibilità per un’umanità senza classi, senza Stato, senza violenza, senza guerre e sfruttamento, in rapporto armonico e finalmente sostenibile con l’ambiente naturale.