Ora che, finalmente!, è giunto al termine il Grande Baraccone Elettorale USA (la quintessenza della democrazia, completa di palloncini colorati e luci stroboscopiche, pubblico ululante, candidati impegnati in acrobatici esercizi di retorica che più banale non si può), qualche parola si può dire, ancora una volta, su quest’ignobile farsa – sempre più volgare, sempre più ridicola e vuota di contenuti.
Marionette, che passione!
Ogni quattro anni, i cittadini statunitensi sono chiamati a “scegliere” fra “due candidati”, e il mondo intero se ne sta a guardare con il fiato sospeso. Ma chi sono, questi eterni “due candidati”? A chi ci chiede una preferenza, noi comunisti rispondiamo sempre che i “due candidati” sono solo marionette: “Il soggetto personale, a più forte ragione nelle società a struttura individualista, è immerso nel massimo di […] impotenza a prevedere e a guidare. In queste società, e soprattutto in quelle la cui ideologia è bolso liberalismo, più il singolo riveste un grado alto della gerarchia, più è una marionetta tratta dai fili deterministi”. Così scrivevamo già nel 1958 [1]. Da allora, l’indecente spettacolarizzazione degli appuntamenti elettorali, in USA come altrove (e sempre con il ricorso a milioni e milioni di dollaroni o altro denaro contante), ha fatto passi da giganti, direttamente proporzionali alla loro vuotaggine, inversamente proporzionali al loro senso reale.
È dunque pura e semplice ingenuità, celebrativa ed esaltante o masochistica e autoflagellante a seconda degli esiti elettorali, ostinarsi a credere che gli eterni “due candidati” siano qualcosa d’altro che “marionette tratte da fili deterministi”. In realtà, sono solo espressioni, più o meno efficaci e convincenti, di interessi economici, finanziari, sociali ben più vasti e profondi, che, proprio grazie a questo genere di personalizzazione, restano nascosti sullo sfondo. A reggere quei fili, a far muovere le marionette sul triste palcoscenico elettorale, sono gli interessi del capitale: interessi, si badi, contraddittori, come contraddittoria è tutta la sostanza del capitalismo, retto dalle leggi della ricerca spasmodica del profitto, e dunque della competizione di tutti contro tutti. Le “narrazioni” che quelle marionette esprimono, le parti che interpretano (aggressive o melense che siano), sono il copione destinato a imbottire il cranio di chi ci crede (meglio: è costretto a crederci), attonito o speranzoso.
Al di là della bolsa retorica (che oltre tutto, ripetendosi praticamente immutata a ogni successivo appuntamento elettorale, si svuota sempre più di significato: l’“età dell’oro”, la “luce della promessa americana” – bah…), gli eterni “due candidati” dicono in verità le medesime cose: dicono ciò che la potenza impersonale del capitale esige che si dica – e, soprattutto, fa in modo che ci si creda. Così, al di là dei proclami orientati a indirizzare il pubblico plaudente, Trump o Harris, Tizio o Caio, faranno ciò che il capitale impone, recitando bene o male il copione già scritto. Con buona pace dei troppi “esperti” di geopolitica…
Il partito unico del capitale
Abbiamo usato le virgolette per indicare gli eterni “due candidati”, perché a ben vedere essi non sono altro che gli esponenti di un partito unico che, nella solo apparente diversità binaria, si manifesta unitario nella spasmodica necessità di conservare il potere del capitale sulla società. “Liberismo/statalismo”, “mondializzazione/isolazionismo”, “libero commercio/protezionismo”, “aumentare la produzione/allargare il consumo”, “aprire/chiudere i rubinetti dell’immigrazione”, “lotta all’inflazione/paura della deflazione”, “libertà individuale/strapotere dello Stato”, “delocalizzazione/reindustrializzazione”, “Silicon Valley/Wall Street”, “polarizzazione della ricchezza/proletarizzazione delle mezze classi”, “spese sociali/spese militari”, “pace/guerra”, sono alcune delle grandi contraddizioni (con relative ricadute sociali) da cui il capitale non riesce a uscire. E che, ogni volta, sono ritualisticamente vendute a un pubblico che, per mesi, è paralizzato nell’attesa.
In tutte le settimane che hanno preceduto il Grande Spettacolo, nessuno ha mai timidamente avanzato la domanda: “Come mai solo due, i veri candidati?”. In una democrazia, non dovrebbe esserci un ampio spettro di posizioni e dunque di candidati? [2] Invece no: i due partiti dominano incontrastati, in un mondo politico che naviga felicemente in un oceano di milioni e milioni di dollari [3]. Anche così, si dimostra l’esistenza, in realtà, di un partito unico: quello del capitale, della democrazia del capitale per il capitale. Parafrasando una famosa battuta, ricorrente nei vecchi film western, “Il capitale parla con lingua biforcuta”!
Ma allora…
Democrazia? Fascismo?
Allora. Buona parte della campagna elettorale è ruotata intorno al quesito “Democrazia o fascismo?”. O meglio, poiché si finisce sempre per personalizzare: “Trump è un fascista?”. La miglior barzelletta è stata quella di John Kelly, non l’ultima ruota del carro in quanto ex-generale dei marines, pluridecorato, ex segretario alla Sicurezza Interna ed ex capo di gabinetto della Casa Bianca nella precedente presidenza Trump [4]. Il quale, interrogato se Trump sia fascista, ha candidamente ammesso d’aver consultato l’internet per sapere… che cos’è un fascista, concludendo che sì, la sua personalità autoritaria ne fa un fascista... Ora, al di là della barzelletta (che comunque la dice lunga sulla sostanza del “discorso politico” in USA!), torna qui uno dei tormentoni non solo americani: che cosa sia democrazia e che cosa fascismo.
Naturalmente, nella débacle politico-culturale che ha contraddistinto l’intero secondo dopoguerra, tutto viene per l’appunto personalizzato: il “carattere autoritario” di Tizio o Caio, o poco di più. Tocca ricordare ancora che il fascismo è qualcosa di un po’ più complesso dell’autoritarismo, della fame di potere, della crudeltà e arroganza, del militarismo, incarnati in uno o più individui. Al contrario, si dimostra in maniera sempre più evidente nei fatti stessi della realtà che il fascismo è la sostanza economica, finanziaria, politica, militare del dominio borghese nella fase dell’imperialismo (tornare a leggersi Lenin, prego: L’imperialismo, fase suprema del capitalismo), orientata a riorganizzare l’economia capitalista in crisi dopo la Prima guerra mondiale e minacciata da vicino da un movimento proletario combattivo e deciso, orientato politicamente in senso rivoluzionario perché guidato dall’Internazionale Comunista attraverso le sue sezioni “nazionali”. Quella sostanza si travaserà nella forma democratica post-Seconda guerra mondiale, quando, complice la dissoluzione della Terza Internazionale a opera dello stalinismo, il “pericolo rosso” non era per il momento all’orizzonte e non c’era bisogno di usare sempre il manganello (salvo in non poche situazioni!) per ricondurre all’ovile le pecorelle smarrite: per farlo, bastava… il Parlamento. Era ed è una sostanza fatta di interventismo statale sul fronte economico, progressivo inserimento dei sindacati nelle strutture statali, esecutivo forte con legislazione sempre più per decreto, svuotamento delle reali funzioni del Parlamento trasformato in “mulino di parole”, riformismo sociale e, tutte le volte che è necessaria, repressione legale e poliziesca di moti proletari (nell’Italietta, applicazione del famigerato Codice Rocco in salsa democratica), aumento progressivo delle spese militari, crescita delle misure di controllo, e così via (senza dimenticare naturalmente il ripetuto ricorso allo stragismo di Stato)… Ci limitiamo a questo, anche perché la materia l’abbiamo trattata più e più volte!
Ora, guardiamo un attimo agli Stati Uniti degli ultimi settant’anni: interventi militari in giro per il mondo, basi militari USA un po’ ovunque, pratiche golpiste di qua e di là, razzismo aperto che si manifesta in forme e pratiche di stato di polizia, carceri traboccanti di proletari, sottoproletari e marginali, repressione omicida di movimenti come le Pantere Nere e simili, infiltrazioni e provocazioni, mezzi di controllo sempre più sofisticati sulla società e sugli individui, aumento delle spese militari e della vendita di armi al mondo, intreccio stretto tra finanza e politica, tra politica e militarismo, interventismo statale nell’economia… Potremmo continuare [5]. Ma pensiamo che basti a rispondere al quesito così angoscioso per i “sinceri democratici”, che – mentre si trastullano con esso – non vedono (non vogliono e non possono vedere) la realtà sotto i loro stessi occhi, e finiscono sempre per cadere, rovinosamente, nell’inganno del “male minore”.
È proprio così difficile capire che dietro lo slogan “Torniamo a fare grande l’America” (con quel che di minaccioso inevitabilmente implica) non ci sta solo la volgare arroganza di chi l’ha coniato, ma anche la vacua melensaggine della sua “antagonista”? E che tutto il resto (comprese le promesse da marinaio alla classe media e all’aristocrazia operaia, o i bei discorsi sui “diritti civili”) gli è dunque subordinato? Di recente, qualcuno ha coniato il neologismo “democratura”: noi abbiamo sempre parlato di dittatura democratica o di democrazia blindata.
Disaffezionati o astenuti?
Non abbiamo ancora i dati sull’affluenza alle urne, ma per noi poco importa se sia cresciuta (come pare, sebbene di poco) o calata. Né c’interessano tutti gli esercizi di analisi dei flussi, per individuare “chi ha votato chi”: le Donne, gli Uomini, i Giovani, i Vecchi, gli Immigrati, gli Operai, i Campagnoli, gli Inurbati, e via di seguito, sempre per categorie sociologiche astratte: per carità, mai un’analisi di classe! Comunque, per noi, non è quello dell’affluenza il punto, perché il nostro astensionismo è di tutt’altra matrice e sostanza. Scrivevamo giusto nel numero scorso di questo giornale:
“Più si è allargato il suffragio, più se ne è perso il significato politico; più si è allargato il suffragio, più si è alienata la capacità politica; più si è allargato il suffragio, più ha perso significato e valore. E progressivamente, un po' in tutti gli Stati più significativi, sempre meno elettori vanno a votare. I costruttori dell'opinione pubblica e le vestali dell'ideologia dominante sembrano dolersene e parlano di un ‘preoccupante astensionismo’. Ma dovrebbero con maggior onestà intellettuale (merce rara e poco remunerativa!) parlare di disaffezione al voto, cioè di un rassegnato consenso a tutto un personale politico assolutamente intercambiabile. Anche la ricorrente affermazione ‘tanto sono tutti uguali’, che si accompagna a quella ‘il più pulito ha la rogna’ ed esplode a ogni scandaletto furfantesco di questa o quella consorteria, esprime un tacito e rassegnato consenso”.
E ancora:
“Un astensionismo prevedrebbe un dissenso, seppure passivo: invece, questo disaffezionato consenso assomiglia tanto a un tacito consenso, a una sorta di rassegnato consenso, che aspetta solo un buon motivo per tornare ad acclamare qualcosa o qualcuno. Nessun rivoluzionario dotato di un minimo senso della realtà potrebbe dare una valenza anche solo potenzialmente sovversiva a questo fenomeno, anche e soprattutto quando con pedante sociologia si cerca di scoprire statisticamente se hanno votato di più o di meno gli abitanti dei ‘quartieri operai’. Per di più, il miglioramento tecnologico e il mercato dei mezzi di comunicazione di massa hanno costruito una macchina del consenso che ha sostituito e reso superflua, inutile, la struttura organizzativa dei partiti di massa: e non è un caso che quella del partito di massa, possibilmente ‘operaio’, sia una perniciosa e persistente nostalgia tipica della pletora degli orfani del PCI e dei teorici e praticoni della cosiddetta... ‘democrazia conflittuale’! Oggi, la ‘base’ dei moderni carrozzoni elettorali non è nemmeno più costituita da poveri militanti illusi di partecipare a un qualsivoglia progetto politico, ma da una consorteria di tifosi a sostegno di squadre di politicanti impegnati a vincere la coppa di una presidenza e lo scudetto di un ministero”.
Così:
“Ancora una volta, lo svolgersi degli eventi ci da amaramente ragione. L'astensionismo non può essere un principio, ma deve essere una attitudine tattica inserita in una prospettiva politica che ‘riveli la classe a se stessa’, parte di un complesso e complessivo lavoro politico antistituzionale, extraparlamentare perché antiparlamentare, non solo di necessaria denuncia del politicantismo personalistico ed elettoralesco ma di preparazione collettiva, anonima e gerarchicamente strutturata contro lo Stato, contro ogni suo organo e organamento. La diserzione dalle urne assume e assumerà un significato politicamente attivo solo quando verrà riconosciuta come una espressione della lotta radicale e rivoluzionaria contro il Capitale, la Borghesia, lo Stato (ogni Stato) imperialista, e soprattutto per l'istituzione degli organi con cui la nostra classe, costituendosi in Partito, eserciterà il proprio dominio” [6].
Crude realtà
Due giorni prima delle elezioni, 45mila lavoratori portuali della costa est degli Stati Uniti, iscritti al sindacato International Longshoremen’s Association, hanno sospeso lo sciopero che, per tre giorni, aveva completamente bloccato 36 porti dal Maine al Golfo del Messico (di cui 14 di grandi dimensioni, fra cui Boston, New York, Philadelphia, Baltimore, Miami, Houston) gestiti dalla US Maritime Alliance, dopo aver portato a casa un aumento salariale del 62% in sei anni (che dovrà comunque essere ancora formalizzato a gennaio 2025, al rinnovo del contratto scaduto a settembre scorso: ci potranno dunque essere altre sorprese, da una parte come dall’altra).
L’azione dei portuali riveste un carattere simbolico, sia per la storia di acuta combattività che ha sempre contraddistinto questi lavoratori, che nei decenni hanno dovuto combattere tanto contro il padronato quanto contro le infiltrazioni malavitose nel sindacato, sia perché si può vedere in essa la punta di un iceberg: l’aumento di una conflittualità diffusa nel Paese, dovuta in primo luogo a condizioni di lavoro sempre più difficili, con salari erosi dalla crescita dell’inflazione.
Infatti, i portuali non sono stati i soli a incrociare le braccia. Per oltre sette settimane, li hanno imitati i 33mila lavoratori della Boeing, che il 4 novembre hanno approvato (con il 59% degli iscritti all’International Association of Machinists-District 751) un aumento salariale del 38%, e misure per aggiornare un trattamento pensionistico che l’azienda da tempo rifiuta di effettuare.
Ma, a fianco di questi grossi scioperi, ce n’è stata una miriade di altri, che possiamo solo elencare, in maniera incompleta: alla John Deere (macchine agricole), alla GM, alla Ford e alla Stellantis (automobili), nelle miniere di carbone dell’Alabama, alla Nabisco e alla Kellog (industria alimentare), tra gli infermieri e più in generale i lavoratori della sanità di California e Stato di New York, nell’azienda sanitaria Kaiser Permanente, tra i carpentieri di Washington, tra i lavoratori di cinema e tv di Hollywood, nel settore dei servizi e del cosiddetti gig works (i famigerati “lavoretti” ultra-precari e ultra-sfruttati), alla Amazon e alla Frito-Lay (settore alimentare), alla AT&T e alla Google (telecomunicazioni), tra gli installatori e manutentori telefonici, e via andare… Anche qui, adeguamenti salariali, sistema pensionistico e migliori condizioni di vita e lavoro sono stati al centro dei conflitti: ma anche, e questo è significativo, numerosi esempi di scioperi di solidarietà con le lotte di altri lavoratori [7]. Che cosa ci dice tutto ciò?
Ci dice che dietro i lustrini, i ballerini e le ballerine, le marionette del Grande Baraccone Elettorale, esiste una situazione sociale spesso drammatica, che investe un po’ tutti i settori del mondo del lavoro e tutte le regioni del vasto Paese. Le lotte si sono moltiplicate negli anni, a volte condotte da sindacati ufficiali che hanno spesso una storia vergognosa alle spalle ma che subiscono una forte pressione da parte dei lavoratori, e a volte espressione di organizzazioni di base che sono un po’ una novità nelle vicende complesse del secondo dopoguerra. È molto semplice: i lavoratori del Paese simbolo dello strapotere imperialista sono con l’acqua alla gola e non ne possono più. Certo, noi non intendiamo gonfiare questi episodi, ma sarebbe altrettanto criminale sminuirli con un’alzata di spalle. Non c’è dubbio che sia ancora molto lungo e accidentato il cammino verso una più diffusa e profonda consapevolezza, nei ranghi di una classe proletaria così composita come quella statunitense, della necessità di un antagonismo aperto e costante; e soprattutto che, in questo lungo cammino, dovrà farsi sentire sempre più la necessità di un forte partito rivoluzionario, radicato e diffuso internazionalmente.
Quanto al primo punto, saranno ancora una volta i fattori e le determinazioni materiali a fare il loro lavoro; quanto al secondo, noi continuiamo e continueremo a fare il nostro.
Note
[1] Da “La teoria della funzione primaria del partito politico, sola custodia e salvezza della energia storica del proletariato. Riunione interfederale di Parma del 20-21 settembre. Terza seduta: Contenuto originale del programma comunista è l'annullamento della persona singola come soggetto economico, titolare di diritti ed attore della storia umana”, Il programma comunista, nn. 21 e 22/1958.
[2] Sappiamo bene che, nell’ultimo spettacolone circense, c’era una terza candidata, Jill Stein, di orientamento “verde”: ma chi se l’è mai filata? Quanto poi alla tanto decantata “sinistra” del Partito Democratico, quella di Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez tanto per intenderci, gli è del tutto organica, e ce ne occuperemo un’altra volta.
[3] Nel 2010, “i vincitori nelle elezioni per la Camera hanno speso in media 1,4 milioni di dollari ciascuno nella loro campagna. E per il Senato? Quasi sette volte di più”. E, nel 2014, “per la prima volta nella storia la maggioranza dei membri del Congresso [è composta da] milionari”. Ancora: “la ricchezza di Nancy Pelosi, la presidente democratica della Camera, era salita da 41 milioni di dollari nel 2004 a 115 milioni nel 2018 e […] quella di Mitch Connell, leader della maggioranza repubblicana al Senato, era passata nello stesso periodo da 3 milioni a oltre 34 milioni” (cit. in Bruno Cartosio, Gli Stati Uniti oggi. Democrazia fragile, lavoro instabile, Roma 2024, p.97). Noccioline da sgranocchiare fra uno spettacolo di saltimbanchi e l’altro…
[4] Fenomeno interessante, quello dei voltagabbana, in quest’ultima elezione: proprio la facilità con cui pezzi grossi sono passati da un partito all’altro conferma la natura di partito unico…
[5] A questo proposito, ci piace ripetere quanto avevamo già citato mesi fa, nell’articolo “La resistibile avanzata dell’ignobile ‘mondo libero’” (il programma comunista, n.1/2024) – le parole di W.J. Astore, un ex ufficiale dell’esercito Usa: “Nessun'altra nazione al mondo vede i suoi militari come (per prendere in prestito uno slogan di breve durata della Marina) ‘una forza globale per il bene’. Nessun'altra nazione divide il mondo intero in comandi militari come AFRICOM per l'Africa e CENTCOM per il Medio Oriente e parti dell'Asia centrale e meridionale, guidati da generali e ammiragli a quattro stelle. Nessun'altra nazione ha una rete di 750 basi straniere sparse in tutto il mondo. Nessun'altra nazione si batte per il dominio a tutto campo attraverso ‘operazioni su tutti i domini’, intendendo non solo il controllo dei tradizionali ‘domini’ del combattimento – la terra, il mare e l'aria – ma anche lo spazio e il cyberspazio. Mentre altri paesi si concentrano principalmente sulla difesa nazionale (o sulle aggressioni regionali di un tipo o dell'altro), l'esercito statunitense si batte per il dominio globale e spaziale totale. Davvero eccezionale!”.
Qui si parla chiaro: altro che dai palcoscenici scintillanti di Philadelphia o di New York, o delle Canicattì made in the USA!
[6] “Il dominio della borghesia tra costruzione del consenso ed esercizio della coercizione (Qualche considerazione a proposito di disaffezione e partecipazione elettorale)”, il programma comunista, n.4/2024. Disponibile sul nostro sito.
[7] Cfr. B. Cartosio, cit., e, dello stesso, “Stati Uniti: soggetti e strategie di lotta nel mondo del lavoro”, in Officina Primo Maggio, https://www.officinaprimomaggio.eu/ 2/11/2024.