Fuga da Gaza
A Rafah, la barriera fra l’Egitto e la Striscia è stata chiusa, e Gaza è ritornata quel lager che è sempre stato: un territorio sotto assedio, stretto nella morsa del blocco israeliano dal mare, dalla frontiera orientale e da quella settentrionale, con muri e check points; un campo-profughi gestito da Hamas col suo piccolo gruppo di uomini armati, caricatura feroce e grottesca dell’altro esercito moderno (per definizione democratico), che è riuscito con una repressione senza fine a costruire una copia in formato minore, ma non meno micidiale, dei grandi stati imperialisti, nazionalista e razzista: lo Stato d’Israele.
Ora che gli egiziani hanno richiuso il valico, questo lembo di terra, che Hamas e Abu Mazen chiamano “territorio nazionale”, è tornato a essere una prigione, e le sbarre sono state abbassate per ordine della Comunità internazionale, “amante della pace”. Che poi, al mutare degli eventi, il passaggio possa rientrare in funzione, come una saracinesca, non cambia nulla: quella “presa d’aria”, che aveva permesso ai proletari palestinesi di soddisfare temporaneamente le più immediate necessità (a suon di valuta, beninteso), è stata per adesso chiusa, in attesa di altre truppe Onu col compito di “controllare il valico” (?): a meno che non sia un intervento diretto israeliano a farlo, sottraendolo di forza, per motivi di “sicurezza nazionale” (?), agli egiziani.
I senza riserva sono tornati a rifugiarsi nella “loro terra”. Dunque, il diritto all’autodecisione, ovvero il diritto a costruirsi una patria, rivendicato dalla borghesia palestinese da mezzo secolo, si traduce nella reclusione in questo luogo di detenzione (o almeno in uno di essi, data la conformazione a macchia di leopardo dei cosiddetti Territori Palestinesi)? Dunque, il diritto alla separazione, concesso da Israele dopo aver ritirato i propri coloni (concessione decisa “democraticamente” alla Knesset qualche anno fa, dopo 40 anni di occupazione!), si materializza in questo luogo circondato da muri e filo spinato? È questa l’autodecisione promessa dall’Onu, dai fratelli arabi, dal consesso internazionale?
Questa terra, che per i proletari palestinesi è solo una prigione, per la ricca borghesia palestinese all’estero, e per la sua corte di ruffiani, usurai, mercanti e religiosi dell’interno (che si fanno Stato gestendo i cosiddetti aiuti umanitari provenienti da tutto il mondo e le rimesse dei proletari emigrati), è un affare da tenere sempre e comunque in stato di allerta bellica. I missili Kassam e le “bombe umane” hanno questo ruolo e non altro.
Per quattro giorni, 300-350mila proletari palestinesi, e con essi la massa di piccoli mercanti e trafficanti, si sono riversati in territorio egiziano, a piedi e con carrette, ma anche con automobili e autocarri, approfittando dei varchi aperti “con grande tempistica” dai militanti di Hamas, perché occorreva sciogliere la tensione drammatica accumulatasi dopo la chiusura dei rubinetti d’acqua, gas, elettricità, e dopo l’interruzione dei rifornimenti alimentari provenienti da Israele. Un flusso in senso contrario di centinaia di commercianti egiziani è giunto nella Striscia per concordare con i mercanti palestinesi nuove forniture di generi alimentari e merci di ogni tipo. La pressione al valico ha provocato scontri tra i palestinesi spinti dal bisogno e la polizia di confine egiziana (fratelli sì, ma solo quando l’affare è reciproco!).
La politica estera egiziana, dettata da Usa e Israele, oltre che dalle pressioni e contraddizioni interne (i grandi scioperi dei tessili, ricordati nei nn.5 e 6/2007 di questo giornale), è stata messa a dura prova. Per Mubarak, la via d’uscita è stata dunque quella di lanciare accuse contro Hamas e contemporaneamente di dialogarci. L’offerta di ospitare al Cairo una conferenza per la riconciliazione fra i gruppi palestinesi (subito accettata da Hamas che non vede l’ora di essere riconosciuto in quanto legittimato dal voto del gennaio 2006) è stata sonoramente respinta dall’altro fantoccio, il presidente dell’Anp, Abu Mazen: il quale, su suggerimento dei suoi amici americani e israeliani, ha posto come condizione la rinuncia immediata da parte di Hamas al controllo della Striscia di Gaza. Ohibò, dove finisce la democrazia tanto cara all’Occidente, per mezzo della quale Hamas ha vinto le elezioni con una differenza di seggi non da poco (74 per Hamas, 45 per Fatah, 5 per la sinistra radicale di FPLP e FDLP, 8 per gli indipendenti)?
In questa situazione di “fuga in Egitto” (quanti proletari hanno clandestinamente tagliato la corda?), non è mancata la solita adunata di un migliaio di pacifisti israeliani, attivisti palestinesi e soprattutto stranieri, che hanno raggiunto il valico di Erez, tra Gaza e Israele, per consegnare aiuti umanitari e, più di tutto, per gridare al mondo di “liberare il popolo di Gaza”. Chi sono? Chiamateli come volete: etnosocialisti, libertari, radicali, nazionalcomunisti, teologi della liberazione, preoccupati “benpensanti di sinistra” – insomma, l’opportunismo in salsa europea, che il solo fatto di blaterare di “autodecisione” non trasforma certo in “comunisti rivoluzionari”! Nessuna parola d’ordine di lotta, ovviamente, ma solo qualche supplica ai potenti: ebrei, americani, tedeschi, ecc. (che, a differenza di questi soccorritori, proprio in nome dell’“autodecisione dei popoli” hanno costruito una Guantamano palestinese). Alla larga!
I proletari palestinesi di Gaza, assediati dall’esterno da un esercito armato fino ai denti, controllati all’interno dalle milizie di Hamas, riportati nel loro recinto dall’esercito egiziano (timoroso che lo si accusi di far passare armi), messi in stato di continuo terrore dai “missili da giardino” e dalle micidiali e martellanti incursioni aeree israeliane che falciano indiscriminatamente la popolazione, allietati da canzoni pacifiste e da mortifere processioni, sono costretti a ripercorrere senza sosta il girone infernale della loro tragedia. Purtroppo, nessun disfattismo rivoluzionario contro gli interventi militari e lo stato di polizia viene agitato dal proletariato israeliano, indifferente e silenzioso da lunghissimi anni, chiuso in difesa dei suoi privilegi, impossibilitato ancora a uscire dalle maglie di una ferrea gabbia sindacale corporativa all’ennesimo grado e dalla potente macchina del consenso nazional-religioso. Nessun atto di disfattismo nemmeno dal proletariato arabo-israeliano, ancora incapace di rizzarsi in piedi, isolato e disprezzato dalle potenti classi medie israeliane, controllato esso pure dall’opportunismo nelle sue file, che (nelle forme religiose piuttosto che in quelle laburiste o patriottiche) lo costringe a elemosinare un riconoscimento di legalità e di dignità in Parlamento (10 deputati su 120 nelle ultime elezioni). E men che meno viene un atto di disfattismo dal proletariato immigrato (cinese, filippino, tailandese, ecc), spinto dalla necessità, ancora troppo giovane per respingere la funzione di concorrente che gli è stata assegnata contro i proletari palestinesi. Come se non bastasse, si aggiunge poi la misera popolazione ebreo-sefardita, preda della destra fondamentalista, elevata al rango di plebe (assistita, ma guardata con sospetto), valvola di sfogo del razzismo interebreo e antiarabo con il suo livore sottoproletario. E’ una miscela che un giorno diventerà esplosiva.
Purtroppo, nessun disfattismo rivoluzionario contro il “comitato d’affari palestinese” nella Striscia e in Cisgiordania viene propugnato nemmeno da parte del proletariato palestinese, che non riesce ancora a concepirsi come tale, e così la scenografia di una patria da conquistare (una “patria galera”) continuerà a essere allestita e rinnovata, ma su un palcoscenico che è sempre il medesimo.
Tutti sono inchiodati a questo tragico presente: ed esso potrà essere spezzato solo dal riaprirsi della lotta di classe a livello internazionale e nelle metropoli imperialiste, di cui Israele è un pilastro decisivo in Medioriente.
Che fine ha fatto l’autodecisione palestinese?
In nome dell’“autodecisione dei popoli” (così dicono), nella vecchia Palestina sono in costruzione, non una, ma tre patrie, quando già una sarebbe fin troppo. E quante in Irak? Hanno già trovato i nomi: Kurdistan, Sunnistan, Sciitistan. Quante ne dovranno ancora spuntare nei Balcani, dopo il Kossovo? E quante nel Caucaso? Nascono, questi stati pseudonazionali o subnazionali, perché il proletariato è stato ammutolito e tenuto alla corda dalle borghesie, ben foraggiate dai devoti imperialisti di “Santa autodecisione”, sia all’estero che nei territori in questione. Tutte le volte che il proletariato è riuscito a sfuggire al controllo delle patrie, in Giordania o in Libano (ricordate Amman, Tall-al-Zaatar, Sabra e Chatila?), lottando con tutte le sue forze, scavalcando le indicazioni dei maestri della sconfitta, si è aperto il mattatoio: non solo da parte di Israele o per conto di Israele, ma anche da parte delle borghesie arabe. I campi profughi non sono mai stati “enclaves patriottiche”, ma luoghi di organizzazione e di sostegno proletario per se stessi e campi di concentramento per l’esercito proletario di riserva per il Capitale. Le due Intifada hanno mostrato la possibilità di mobilitazione che i proletari palestinesi riescono a mettere in campo, lottando per difendere le loro condizioni di esistenza, nello stesso tempo in cui la borghesia palestinese li lanciava come vittime sacrificali nel nome di una patria scalcagnata e assassina.
I vari partiti della borghesia palestinese fanno scannare tra loro i proletari per stabilire rapporti di potere indispensabili alla gestione delle risorse “patrie”: dimostrazione lampante che, grande o piccola, oppressa o opprimente, ogni causa nazionale ormai può solo generare uno stato imperialista, piccolo o grande o aspirante tale.
La formazione dello Stato nazionale all’uscita dalle società precapitalistiche è stato considerato dai comunisti un mezzo, e non un fine, per la rivoluzione di classe. L’azione tattica prevedeva, se le forze del proletariato erano ben organizzate e autonome politicamente, una resa dei conti, indipendentemente dal fatto che la borghesia arrivasse al potere: era la “doppia rivoluzione” o la “rivoluzione in permanenza” di Marx, l’occasione storica per attaccare sul nascere la borghesia e imporre la dittatura del proletariato (la rivoluzione d’Ottobre ha avuto questo sviluppo). In assenza di un’azione proletaria autonoma, la formazione dello Stato nazionale era considerata un mezzo per accelerare lo sviluppo capitalistico, e con esso lo sviluppo del proletariato in quanto “classe in sé” (cioè, in senso numerico, quantitativo, sociologico), in vista di un suo futuro sviluppo politico come “classe per sé” (cioè, che lotta per i propri interessi storici). Dunque, nessun appoggio a cause nazionali in quanto tali, a favore di un astratto principio di autodecisione.
Nel corso dello sviluppo rivoluzionario borghese, la lotta del proletariato contro la borghesia è in un primo tempo lotta nazionale, anche se non sostanzialmente, certo formalmente. E’ naturale che il proletariato di ciascun paese debba innanzitutto sbrigarsela con la propria borghesia (vedi il Manifesto del partito comunista, 1848). Nella realtà odierna, in cui il ciclo delle rivoluzioni nazionali si è chiuso e non esiste alcuna funzione rivoluzionaria della borghesia, il proletariato deve agire indipendentemente, difendendosi dalla propria borghesia per prepararsi ad attaccarla e sviluppando il disfattismo di classe nel nome dell’internazionalismo proletario. Chiaro, anche se difficile. Eppure, ci sono ancora imbecilli che vorrebbero scaricare sul groppone proletario una causa nazionale, sforzandosi di dare alla forma “nazionale” una vera sostanza! Così, nel caso mediorientale, invece di attaccare la borghesia, si chiede al proletariato palestinese di... sostituirla, ripercorrendo la tragica via che lo stalinismo ha tracciato prima, durante e dopo il secondo massacro imperialista per il proletariato europeo: raccogliere le bandiere borghesi gettate nel fango e farsi stato, avere un “ruolo” nazionale. E’ proprio vero: i proletari palestinesi hanno molti nemici, e non ultimi sono gli imbecilli! Invece di indicare una prospettiva che li aiuti a liberarsi dal “nemico in casa”, costoro li lanciano in una qualche altra carneficina, prigionieri della loro miserabile borghesia.
I proletari palestinesi guardino i tragici insegnamenti della propria storia, le grandi lotte sostenute per difendersi da tutte le borghesie che li opprimono, nelle disastrose condizioni degli ultimi sessant’anni. Non tutto è perduto, se si impara a organizzarsi e a combattere nelle forme proprie della classe dei senza riserve: non per la patria, né per Allah, ma per se stessi in quanto classe sfruttata. Solo cosi sarà possibile, per loro e per i proletari di tutto il mondo, riprendere il cammino rivoluzionario interrotto.
Ultim’ora
Mentre chiudevamo questo numero, i carri armati israeliani sono entrati nella Striscia di Gaza, occupando i campi profughi di Jabaliya e Beit Laiyia, distruggendo case e terrorizzando la popolazione, mentre i raid aerei martellavano la città di Gaza e blindati e truppe scelte si preparavano ad assediarla e occuparla: tre giorni di intensi bombardamenti che hanno provocato la morte di 111 palestinesi, per la maggior parte civili, tra cui 17 bambini.
Il terrorismo dello Stato democratico d’Israele ha continuato la sua opera micidiale. Nelle guerre democratiche, ormai da un secolo la realtà capitalistica ha questo volto: il fine non è l’eliminazione del nemico (la borghesia concorrente e il suo ceto politico), ma il massacro delle masse povere e miserabili. I senza riserve sono un peso per le classi dominanti di tutto il mondo, un costo che sotto la sferza della crisi economica le borghesie nazionali non possono permettersi di pagare.
Eliminare le forze di Hamas? abbattere l'esecutivo di Ismail Haniyeh? mettere Abu Mazen al suo posto anche a Gaza? Per ottenere cosa? Possono queste borghesie risolvere una questione sociale, una realtà che hanno spinto fino alla putrefazione? Nel pieno di un imbastardimento collettivo, esse non solo sono impotenti, ma non hanno alcun interesse, come non lo ha la borghesia mondiale, a risolvere un problema locale come questo, trascinato e aggravato ormai da sessant’anni, ridotto prima a problema nazionale e oggi sempre più problema di classe.
Prima il bombardamento di Beirut e il ritiro dal Libano, poi l’invasione a intermittenza della Strisca di Gaza: due altre tessere del mosaico di guerra che si sta costruendo nella regione, per il prossimo futuro.
Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2008)